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Disturbi e paure sul lettino del Dr. Cronenberg

Faccia a faccia con il regista di "A Dangerous Method" che nella nostra intervista esclusiva ci parla di Freud, Woody Allen e del suo Sessantotto

David Cronenberg

02.10.2011 - Autore: Pierpaolo Festa
“Non penso mai ai miei film del passato quando ne giro uno nuovo. Anzi, ho sempre voglia di dimenticarli tutti” – parla con grande sincerità David Cronenberg, quando lo incontriamo in una villa di Venezia, pochi giorni dopo che il suo “A Dangerous Method” (qui la nostra recensione) ha diviso la critica alla sessantottesima Mostra del Cinema. Conversare mezz’ora con il regista canadese è alquanto bizzarro, dal momento che è inevitabile non pensare a tutti i suoi film meravigliosamente disturbanti, per poi ritrovarsi davanti a questa persona dalla parlantina facile e gentile. L’inquietudine non ci abbandona, quasi corressimo il rischio di ritrovarci improvvisamente legati a un lettino con il regista pronto a torturarci e trasformarci in una delle sue creature cinematografiche tipo “La mosca” o “Videodrome”.

Ma seppelliamo tutte le fantasie disturbanti per chiedere allo stesso Cronenberg cosa, invece, disturba lui: “Non sono un tipo che rimane facilmente disturbato. Non so dirvi cosa mi disturba, forse non gradisco che la gente si aspetti da me torture e splatter. Spesso ricevo tante sceneggiature da leggere, possono essere belle storie, ma non basta. Per fare un film devi avere passione, perché è una cosa molto difficile e puoi impiegare anche dieci anni a realizzarlo”.

David Cronenberg sul set di A Dangerous Method

A Dangerous Method” parla di psicoanalisti e psicoanalisi, temi sui quali Woody Allen ha il marchio di fabbrica al cinema…
Woody è famoso per prendersi tanto in giro sul fatto di essere stato in analisi per quaranta o cinquanta anni. Ma proprio per questo ti viene da pensare: sta davvero funzionando? È strano, ma nemmeno Freud faceva così: avevi un problema, andavi da lui e con un numero ragionevole di sedute tornavi a casa guarito. Credo, dunque, che il vecchio Sigmund sarebbe rimasto scioccato dal fatto che un uomo stia in analisi per tutti questi anni!

Quando e come ha cominciato a interessarsi di psicoanalisi?
Penso sia affascinante dire a te stesso: “darò i dettagli della mia vita privata a questa persona che io non conosco. È importantissimo che l’analista sia uno con cui non hai alcun rapporto personale. È una cosa straordinaria dirgli tutto sulla vita sessuale, sui sogni e le paure, in modo che quello ti aiuti a capire te stesso. Perfino sul lavoro si tratta di analizzare la gente. Pensate ai politici ad esempio! Io mi conosco bene come regista. Fare un film è difficilissimo, ci sono tante forze che ti pressano ed è lì che capisci che tipo di regista sei, quali sono le tue debolezze e le tue forze. Per dirigere devi anche affidarti al miglior team che puoi avere, e quindi devi capire le loro psicologie o le abilità.

David Cronenberg dirige Viggo Mortensen sul set di A History of Violence

Anche per questo lavora sempre con le stesse persone?
Sì, ma anche perché sono molto pigro. Ho girato “Cosmopolis”, e ho montato la mia versione in due giorni. Per “A Dangerous Method” ce ne sono voluti sei. Dieci anni fa non ero così, quindi oggi capisco meglio il mio metodo: non giro più la scena da diversi angoli e il mio montatore - che mi conosce da trentacinque anni - può immediatamente editare una versione del film molto simile a quella che voglio io. Dopodiché io gli modifico qualche dettaglio. 

Recentemente ha dichiarato che la gente è tornata a Freud negli ultimi anni. Anche per lei è così?
Be’, sì mi sento più vicino a Freud. Una delle ragioni per cui lo preferisco è perché non ha mai perso di vista la realtà del corpo umano. All’epoca parlare di vagina, pene, genitali era un tabù. In realtà penso che la psicoanalisi sia molto legata al corpo: Freud parlava di abusi su bambini, incesti e altri temi considerati scandalosi. Eppure lui aveva curato quei pazienti e scoperto i loro traumi provocati da genitori o parenti. Ma la gente non ne voleva sapere nulla e rifiutava la verità. Jung, invece, volava via dal corpo, cercando di negarlo. È in questo momento che Jung diventa, secondo me, una specie di leader religioso più che un dottore. Questo non vuol dire che non fosse in grado di curare la gente. 

David Cronenberg a Venezia 68
 
In “A Dangerous Method” seguiamo Jung fino a un certo punto della sua carriera. Cosa gli accadde alla fine?
Ho letto un libro intitolato “Il libro rosso”, scritto da Jung diversi anni dopo il suo esaurimento nervoso e dopo la rottura con Freud (edito in Italia da Bollati Boringhieri). Un libro che è stato tenuto nascosto dalla stessa famiglia dello psicoanalista fino a poco tempo fa. Adesso lo si può comprare ed è illustrato con dipinti delle sue visioni psicotiche: angeli, demoni e mostri. Se leggete la sua autobiografia – scritta solo in parte da lui – noterete che parla di alcune visioni avute a dieci anni, descrivendole chiaramente. Se fossi uno psicoanalista e vivessi nella sua epoca, non ci metterei molto a diagnosticargli disturbi psicotici.

Possiamo, allora, imparare da un uomo come Otto Gross (nel film interpretato da Vincent Cassel)?
Non credo. Lui era un hippie, non aveva le risposte. Prendeva droghe costantemente, credeva nell’amore libero e nel dire tutto quello che gli passava per la testa. Era un po’ come un precursore dell’epoca hippie.

E lei invece, come è stato il suo ‘68?
Be’ anche io ho preso droghe, un po’ di rock n’ roll, e anche un po’ di amore libero…


"A Dangerous Method", in uscita il 30 settembre, è distribuito dalla Bim

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