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Cronenberg e Mortensen

Cronenberg a Cannes per presentare il suo nuovo lavoro "A History of Violence" con la star Viggo Mortensen

A HISTORY OF VIOLENCE

12.04.2007 - Autore: Adriano Ercolani
D – Come ha scelto di girare un classico noir, pieno d’azione e di fisicità?
DAVID CRONENBERG – Non credo sia soltanto un thriller, c’è anche dell’humour, un aspetto comico. In un certo senso però è vero quello che dice: c’è più azione che negli altri precedenti lavori. Anche se, soprattutto nei miei primi film che affrontavano il tema della mutazione, o ad esempio anche in “Crash”, era contenuta un po’ d’azione. Anche ne “La mosca” c’è azione, e molta. Non è quindi un territorio del tutto nuovo per me: avevo anche girato delle scene violente, anche se in “A History of Violence” adopero un approccio diverso, un altro tono. Ci sono stati degli elementi in questo film del tutto nuovi per me, ma essi hanno riguardato soprattutto la post-produzione ed il digitale.

D – Come hai interpretato un personaggio che all’inizio si presenta come una persona normale, il classico americano medio?
VIGGO MORTENSEN – Sarebbe un grosso errore creder che sia facile interpretare un uomo qualunque. All’inizio è buono e simpatico, ma man mano che il film procede diventa più complesso. Cronenberg non ama lavorare in modo semplice, per cui ha messo vari aspetti nel personaggio, ha sottolineato più facce di una stessa personalità. David poi mi la lasciato riempire il ruolo con le mie sensazioni ed idee su di esso.

D – E’ vero che Cronenberg crea un’atmosfera assolutamente tranquilla sul set?
V.M. – David è molto collaborativo, permette agli attori di collaborare sul set ed allo studio della sceneggiatura. E’ vero d’altronde che noi gli proponevamo dieci idee e nove non andavano bene…ma la decima la accettava!
D.C. – Io faccio così perché sono pigro, preferisco farmi dare le idee dagli altri…

D – Come ci si deve porre di fronte alla violenza, almeno dal punto di vista estetico?
D.C. – Secondo me non si deve avere un approccio estetico, ma drammatico. Si deve partire dai personaggi: la violenza fa parte del personaggio di Viggo, ma è vista come una cosa puramente funzionale. Io nel film adopero una violenza sempre funzionale alla trama ed allo sviluppo dei personaggi. E’ rapida, brutale, non elegante, e i risultati sono scioccanti. Non dico che le scene di violenza al cinema debbano essere girate tutte in questo modo: è semplicemente quello che ho scelto di fare io. Eppure, allo stesso tempo, ho cercato di girare il film n modo che lo spettatore possa entrare in empatia con i personaggi che usano la violenza, in modo da trasmettergli il paradosso di provare piacere per qualcosa che è moralmente discutibile. E’ questa contraddizione in termini che ho cercato di proporre…

D – Come ha organizzato visivamente le scene d’azione?
D.C. – Io e Viggo abbiamo visionato moto materiale, soprattutto vhs con istruttori che insegnavano ad uccidere con velocità presunti assalitori per strada. E’ stato molto efficace per rendere le scene estremamente rapide e brutali, quindi realistiche.

D – Dunque lei si assume delle responsabilità nel mettere in scena la violenza?
D.C. – La prima responsabilità che ho è nei confronti della mia arte. Nessuno crea arte nel vuoto. Per prima cosa si deve essere fedeli al proprio film: ed essere consapevoli della sua potenzialità. La questione è complessa, certo. Quello che abbiamo fatto con questo film è estremamente responsabile, perché abbiamo voluto sollecitare un dibattito sulla natura stessa della violenza, sul suo impatto sulla società, sulle famiglie, sul corpo umano…
V.M – C’è da sottolineare poi che “A History of Violence” tratta molti altri temi oltre che la violenza: parla anche della nozione autorità, del modo più o meno sbagliato di esercitarla. La violenza quindi è solo un mezzo per esercitare questa autorità che si tratti di un uomo, di una famiglia, di una città o di una nazione…

D – Questa storia che parte da un atto di legittima difesa sembra essere decisamente appartenente alla cultura americana…
D.C. – E’ vero, è una riproposizione del mito del “self-made man” che prende una pistola e la usa per difendere i propri valori e la propria famiglia. Questo concetto appartiene inderogabilmente alla società ed alla cultura americane. Come però ogni artista potrà confermarle, per essere universali bisogna essere prima di tutto specifici. Per cui la specificità di questo film, il suo essere “americano”, lo aiuta a diventare universale. Ogni paese, ogni nazione ha la propria storia di violenza e coercizione…

D – La sceneggiatura non è stata scritta da lei. E più o meno facile girare una storia di altri?
D.C. – Dicevo sul serio quando ho confessato di essere pigro! E’ stato un sollievo non aver dovuto scrivere il copione; ho aggiunto e cambiato qualcosa per espressa richiesta dallo sceneggiatore, ma tutto qui.

D – Qual è il messaggio del film?
D.C. – Quando si gira un film non per forza si vuole trasmettere un messaggio. Si tratta di un’esperienza complessa, a vari livelli: emotivi, intellettuali, ovviamente anche politici. Volevamo trasmettere non un solo messaggio, ma delle idee riguardo la condizione umana.