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Bellaria e l'età dell'oro dei documentari

Il meglio del documentario italiano al Bellaria Film Festival. L'intervista al direttore Fabio Toncelli

Fabio Toncelli, direttore Bellaria Film Festival<br>

Il direttore del Bellaria Film Festival, Fabio Toncelli

05.06.2013 - Autore: Pierpaolo Festa
"Il documentario italiano dovrebbe essere morto. Questo è quello che vogliono far crederci. Non è così. La qualità rimane ancora altissima" - Così dichiara Fabio Toncelli, direttore artistico del Bellaria Film Festival, un appuntamento annuale che si è appena concluso e che ha celebrato il meglio dei documentari realizzati in Italia nel corso di un anno.  

E' ormai una tradizione di Film.it concludere la maggior parte delle nostre interviste chiedendo al nostro interlocutore quale poster ha appeso in camera quando era ragazzino. Per una volta, invece, scegliamo di cominciare proprio dal poster, quello della trentunesima edizione del BFF.

Come mai tutte queste uova rotte sul poster di Bellaria 31?
E l'idea di una cosa buona e popolare come una frittata. Rappresentano dunque qualità e apertura verso il pubblico. C'è anche un secondo significato: la speranza che i documentari rompano sempre le uova nel paniere a qualcuno.

Ogni anno vengono prodotti sempre più documentari in tutto il mondo. Molti di questi diventano mainstrem. Possiamo dunque affermare di vivere l'epoca d'oro del documentario?
E' proprio così. Pensate a pellicole come Fahrenheit 9/11 o La marcia dei pinguini che sono stati campioni di incasso in tutto il mondo. Questo vale a livello internazionale, in Italia invece è un paradosso. Se nel mondo il documentario è lo strumento più innovativo e originale, in Italia viene percepito esattamente all'opposto, schiavo di una visione tutta italiana, ideologica e standard, che vogliono farci credere. Di certo azzeccare un documentario che possa convincere il pubblico è abbastanza difficile. In Italia uso il termine "paradosso", perché ci sono poche possibilità: quasi sempre la collocazione dei documentari all'interno del palinsesto televisivo è impossibile. Le possibilità sono poche e le si trova soltanto grazie ad alcune distribuzioni innovative.

E' interessante collocare questa età dell'oro del documentario proprio nel momento in cui in TV spopola ogni genere di reality show. Si tratta di un colpo di coda culturale intelligente?
Sappiamo tutti che non c'è nulla di più falso di un reality. Un "reality" è una contraddizione in termine e pellicole come The Truman Show ce lo hanno mostrato in maniera perfetta: quello che doveva essere una fotografia della realtà non lo era affatto. Se guardate il Grande fratello noterete che la caratteristica principale dei personaggi è quella di non saper fare nulla. Di solito questo "talento" viene catturato dalla parola "spontaneo", termine che è già un primo segnale d'allarme. Pensate a quando qualcuno vi dice: "Quello è un tipo spontaneo!"... Il documentario è il concatenamento di emozioni e storie in una struttura narrativa. C'è sempre un autore ma quello che viene mostrato è un'immagine della realtà. E rispetto al cinema ha un vantaggio: è una forma di espressione libera. Può avere stili diversi e si nutre del'emozione vera.

In Italia vengono realizzati centinaia di documentari l'anno. Solo una piccola percentuale di questi ha un livello qualitativo alto. Quanti ne esaminate a Bellaria?
Il nostro comitato di selezione è molto agguerrito: ci teniamo costantemente aggiornati su tutto quello che esce. Cerchiamo di vedere tutto, numericamente arriviamo a un centinaio di documentari. E il livello di qualità è salito anno dopo anno. In occasione della trentunesima edizione siamo arrivati a selezionare quindici film in concorso, perché non riuscivamo a rinunciare a nessun titolo.

Inevitabile chiederle dove sta andando dunque il Bellaria Film Festival...
Uno dei segreti del Festival è che qui c'è apertura mentale. Bellaria è l'occasione per vedere ciò che di meglio è stato fatto in un anno nel cinema documentaristico. Si tratta di un programma di quattro giorni: uno schedule molto concentrato in cui lo spettatore, se ha volontà e pazienza, può veramente vedere tutto. Lo scopo è quello di continuare ad evolversi sempre di più, ma intelligentemente e con modestia. Anno dopo anno si avvicinano a noi esperienze molto interessanti e accade anche in un momento di scarsità di fondi. Quindi abbiamo una grande chance: da poco abbiamo aperto il festival ai radiodocumentari e proprio l'altro giorno mi è venuta in mente un'idea sulla lirica...

Quando non fa il direttore cerca sempre di tornare dietro la macchina da presa ed essere un documentarista? Quanto sei multitasking?
Tanto multitasking: cerco sempre di dedicarmi al documentario. Già alla fine di giugno cercherò di completare il mio prossimo progetto incentrato sulla caduta del fascismo, il 25 luglio 1943: abbiamo scoperto delle foto a colori di Mussolini e Hitler dell'epoca. Realizzare un documentario è certamente una cosa difficile, però ogni volta che intervisto qualcuno la fatica sparisce.

Inevitabile chiederti della tua collaborazione con Sergio Leone: che tipo era? Era un entusiasta? Un burbero? Uno che si stressava facilmente?
Non si stressava affatto. All'epoca ero molto giovane, abbiamo lavorato insieme sul copione di Un posto che solo Mary conosce, progetto mai realizzato e pensato per Mickey Rourke e Richard Gere. Sergio mi ha cambiato la vita. Non ha mai smesso di insegnarmi a raccontare le emozioni: "Non avere paura di raccontare una storia - mi diceva -  raccontala dritta per dritta per come la senti. Se la sentirai tu in maniera forte , la sentiranno anche gli altri". Certo che era un burbero, ma era anche un monumento! Riassumeva in sé tutti i personaggi dei suoi film. Con me fu molto affettuoso. ed interessato ad ascoltare i miei episodi di vita ambientati nel quartiere periferico di Roma dove sono cresciuto. Con Sergio si rideva tanto però c'era una cosa che capivi benissimo stando al suo fianco: che il cinema è un mestiere duro e per farlo devi essere un duro. Ecco perché dico che Sergio sembrava il protagonista di uno dei suoi film.

Torniamo ai poster con la domanda tradizionale di Film.it. Qual era il poster che avevi in camera da ragazzino?
Sono cresciuto con tre fratelli e c'era una grossa lotta sui poster. Loro sono tutti romanisti e io l'unico laziale. C'era il poster di Agostino Di Bartolomei. E mi piacchiarono quando tentai di appendere il poster di Chinaglia con la maglia biancoazzurra. Alla fine ne misi uno dei Beatles...

Per saperne di più
Il sito ufficiale del Bellaria Film Festival
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