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Un Été Brûlant - La recensione da Venezia 68

Philippe Garrell firma un'inguardabile opera con Monica Bellucci e il figlio Louis in cui non si salvano nemmeno gli animali di scena

Un ete brulant - Monica Bellucci, Jerome Robart

02.09.2011 - Autore: Andrea D'Addio
La strada è buia e tortuosa, Frédéric è al volante, piange, è distrutto, non è in grado di guidare, lo sa ed improvvisamente accelera fino a schiantarsi contro un albero. E’ sopravvissuto o morto nell’incidente? Facciamo un salto indietro nel tempo, torniamo a quando conobbe il suo migliore amico Paul, un aspirante attore con cui lega fin da subito. Frédéric è ricco di famiglia, fa il pittore, ma la maggiore parte delle sue attenzioni sono rivolte alla moglie, un’italiana anche lei attrice che non è ancora conosciuta al grande pubblico. Tra di loro le cose sembrano funzionare all’inizio, ma gli sbalzi di umore di lui stanno gradualmente rovinando il rapporto. L’epilogo, del resto, non potrebbe essere più tragico…

Dopo il Leone d’Argento per “Les amants réguliers nel 2005, Philippe Garrel torna in concorso a Venezia ancora una volta assieme al figlio attore, Louis. La scelta non potrebbe essere più sbagliata: una kermesse cinematografica può essere un’ottima vetrina per creare il passaparola, con cui i piccoli film senza grossi budget posso sperare di basare la propria fortuna, ma allo stesso tempo, quando si tratta di qualcosa di inguardabile, è impossibile frenare il flusso di commenti negativi. E qui parliamo di una pellicola particolarmente brutta, uno di quei casi in cui, sceneggiatura, montaggio, regia ed interpretazioni riescono tutti a rimanere ad un così basso livello che dopo 10 minuti di proiezione si attendono i restanti 85 come un supplizio. Dal nudo della Bellucci ad inizio pellicola, un fotogramma senza alcun significato concettuale o estetico, passando per la pretestuosa polemicità di alcune scene (vince per inutilità quella della retata ai ragazzi neri sotto il cavalcavia con tanto di battuta senza alcun fondamento logico: “Sarkozy è una merda”), “Un Été Brûlant” è un collage di luoghi comuni e fili narrativi lasciati a metà di cui comunque nessuno avrebbe intenzione di sapere come andrebbero a finire.

Garrel gira con un solo ciak le proprie scene, e si vede. A pagarne dazio è prima di tutto la Bellucci, per niente salvaguardata dal suo regista dal risultare spesso involontariamente comica, ma anche Jérôme Robart, con quel suo sorrisino tatuato sul volto qualsiasi cosa accada, dal tentato suicidio dell'amico alla gravidanza della moglie. Non si può girare quattro minuti di ballo per far capire che c’è intesa tra un uomo e una donna, né mettere due donne tutte in tiro a camminare di notte sui marciapiedi del Foro Romano senza che sembrino due lucciole. Il tema della religiosità è buttato lì come lo si potrebbe trovare in un finto trailer di Maccio Capatonda, mentre il topo che quando viene scoperto si ferma e si guarda intorno come farebbe Titti quando emette il suo classico “Mi è semblato di vedele un gatto”, provoca più risate che empatia con il successivo scoppio di pianto del personaggio della Bellucci.

Sul tema della “rivoluzione di classe” e di come salti dentro al film a fasi alterne, senza alcun filo logico, non c’è bisogno di dire molto, giusto che sembra arrivare fuori tempo massimo, tanto da far apparire un film vecchio ancora prima di essere filmato, mentre il nonno che appare all’ospedale per due minuti di dialogo in cui dice e contraddice di tutto è giusto l’ultimo personaggio trash in ordine cronologico a comparire in questo pastrocchio. Peccato, forse dato il regista e il cast, qualcosa di buono poteva pure uscirne.

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