
Luc Besson, ha diretto il film, potendo contare su un lavoro di preparazione incompleto, dove le figure di riferimento sono una, inaccessibile al tempo delle riprese a causa della detenzione, e l’altra purtroppo tragicamente e prematuramente scomparsa. Le difficoltà di accesso al materiale di esperienza diretta riguardante Aung San Suu Kyi, hanno contribuito sfavorevolmente a realizzare un film dove il materiale reale, e le conoscenze pregresse dello spettatore invadono lo schermo, conferendo merito e pathos ad una pellicola equilibrata solo a brevi tratti. Il film non vuole essere politico, non ne possiede infatti le sfumature, ma non si spiega la scelta di voler comunque descrivere accuratamente un contesto sociale per buona parte del film, che risulta così semplificato, bozzettistico e a tratti estremamente caricato. Quanto alla decisione di dare centralità alla storia d’amore, i rapporti tra “Suu” e il marito Micheal Artis (David Thewlis), sono spesso saturi di una formalità che se negli intenti ricalca la compostezza orientale e il frutto della lontananza, finisce per tenere lo spettatore a distanza di sicurezza. Solamente nella parte finale quando la passione e la tragedia accelerano, si è coinvolti, tentando di dimenticare la fatica di un’ora e mezza passata ad osservare una reclusione ripetitiva.

Se è vero che anche dietro ogni donna c’è un grande uomo, e dietro questa grande donna, uno Stato che palpita con essa, il film non è all’altezza di dipingere l’interazione tra le parti. L’unica figura completa e monolitica che si erige al di sopra di tutto è proprio quella di Aung San Suu Kyi, ed è la forza della materia reale e la necessità di divulgare una storia di libertà violate, a valicare lo schermo, mentre il resto, con tutte le scusanti necessarie, è un elemento accessorio e di disturbo alla visione.
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