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Le chiavi di casa

Con "Le chiavi di casa" Amelio ha già vinto la sua sfida. Il rischio di un argomento che poteva scadere nella retorica e l'attore principale che poteva semplicemente raccontare se stesso. Un film magistrale ne è venuto fuori. Grandi interpretazioni per i brividi e le risate leggere del pubblico.

Le chiavi di casa

12.04.2007 - Autore: Leonardo Godano e Matteo Nucci
VENEZIA. Otto minuti – dicono. Può darsi, ma poi cosa importa? Non si può calcolare l’intensità di un applauso, non si può misurare la sincerità di un’ovazione. Così, dire che in Sala Grande ieri sera l’applauso è durato otto minuti non serve a molto. Bisognerebbe raccontare piuttosto l’emozione. E sarebbe altrettanto inutile. Perché “Le chiavi di casa” di Amelio è un film di così alta sensibilità che qualsiasi parola di commento sembra vana.   La storia è nota. C’è un padre (Kim Rossi Stuart) che è fuggito al dolore di un parto maledetto e che ritrova il figlio ormai adolescente (Andrea Rossi). Ossia un ragazzino disabile, lo straordinario Andrea Rossi, cresciuto attraverso mille sofferenze fino a imparare meglio di moltissimi adulti la profondità del dolore e la necessità di affrontarlo a testa alta. Le difficoltà per il padre sono superiori a qualsiasi calcolo ed è una donna, una madre consapevole (Charlotte Rampling), a offrire per quelle difficoltà una sponda.   Ispirato a “Nati due volte” di Giuseppe Pontiggia - cui è anche dedicato -, “Le chiavi di casa” non indulge mai nella retorica. Scritto magistralmente, diretto come ci si può aspettare da uno dei migliori registi del nostro cinema, il film dà la possibilità di seguire a lungo la sofferenza dei protagonisti con una leggerezza assoluta. E il merito maggiore và all’interpretazione degli attori e soprattutto di Andrea Rossi.   Sulla scelta – anzi, sulla scommessa – di un disabile per l’interpretazione di una parte che non sia semplicemente quella di fare se stesso si potrebbero spendere fiumi d’inchiostro. Anche in questo caso la migliore soluzione è andare a vedere il film. Difficilissimo riuscire a spiegare quanto il ragazzo (diretto con grandissima fatica e maestria – come ha raccontato Amelio) riesca a dare un tocco personale – da attore, cioè – alla sua parte.   Si ride, durante “Le chiavi di casa”. E non è un riso amaro. Si ride per l’intelligenza e la profondità di un ragazzino che detta la formazione di un’immaginaria Lazio al medico tedesco, si ride per il suo amore verso ‘la Bugatti’ e verso una ragazzina norvegese vista solo in foto cui invia una mail strepitosa. Si ride per quanto di suo, dell’attore Rossi, c’è nel film, nel suo romanaccio conclusivo e ripetuto, di fronte al padre piangente “ma nun se fa così…”   Nessuna indulgenza, nessun autocompiacimento. Una lievità talmente unica da lasciare solo brividi. Amelio è veramente una consolazione, un’oasi, un momento di tranquillità e riposo per chi ami il cinema italiano. Se si ripensa a Placido, viene da sorridere. Le sale che ridevano a crepapelle del lutto di fronte alle sale che si commuovono ridendo di un riso vitale durante il più profondo dolore. Una Charlotte Rampling che parla della figlia e della sofferenza cui andrà incontro Kim Rossi Stuart potrebbe cadere nel vuoto dell’ipocrisia e invece resta sospesa nelle altezze da vero cinema.   E così applausi. Applausi, brividi e rispetto. Non c’è stato bisogno di comprarsi una claque pur di smentire il giudizio della stampa, questa volta. Perché la stampa ha amato il film e lo amerà il pubblico tutto. Non serve neppure che vinca, “Le chiavi di casa”. In fondo, ha già vinto la più difficile sfida. Argomento pericoloso e interprete che poteva semplicemente recitare se stesso. Non ci sono parole, signori. Un grazie ad Amelio dal vero cinema italiano.
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