
Per raccontare la sua storia personale Samuel Maoz ha impiegato venticinque anni. Era proprio lui uno dei quattro ragazzi rinchiusi nel mezzo blindato, è stato lui a dover decidere, in un battito di ciglia, se uccidere un uomo che avrebbe potuto sparargli a sua volta. “À la guerre comme à la guerre” dicevano i francesi. Si spara per istinto di sopravvivenza, ma ciò non toglie che i propri demoni ritornino senza pausa nei giorni che verranno.

Il film vincitore del Leone d’Oro a Venezia è interessante sotto vari aspetti. Prima di tutto per quello tecnico. Gestendo al meglio i circa tre metri cubici di spazio in cui i protagonisti vivono la loro storia, Maoz crea un vero e proprio mondo a sé stante dove i primi piani, gli scontro verbali, le posizioni e le funzioni degli uomini risultano ben distinte nonostante la difficoltà nell’illuminare verosimilmente un luogo per sua stessa natura impenetrabile alla luce del sole. Allo stesso tempo, l’idea di utilizzare il mirino del cannone come una visione in soggettiva dell’esterno, se da una parte strizza l’occhio ai videogiochi sparatutto come “Doom” (che, non a caso, la utilizzò anche nella sua versione cinematografica), dall’altra pone anche una particolare riflessione concettuale (e qui andiamo sull’aspetto narrativo-drammaturgico del film).

Tutto ciò che viene inquadrato dell’esterno è tanto lo sguardo di un curioso, quanto un possibile obiettivo del carro armato. Basta che si muova sospettosamente qualcosa e quella che era semplice osservazione diventa il centro di un mirino pronto a fare fuoco. Ciò che ne esce non è solo un’indagine sul significato del libero arbitrio, ma un film che critica la guerra nella sua essenza, a prescindere da dove sia e chi siano coinvolti. Si parla di uomini, non di masse: non si può vivere dopo essere stati uccisi, ma si può davvero farlo dopo essere stati carnefici?
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