Dopo “Amores Perros” e “21 Grammi” lei sembra portare avanti un discorso preciso sul melodramma…
A.G.I. – Io non riesco a definire i miei film come dei melodrammi,
almeno nel senso classico del termine. Certo, “Amores Perros” e
soprattutto “21 Grammi” sono di certo molto drammatici, ma cercano di
esplorare dei territori dell’anima che forse vanno oltre un semplice
genere cinematografico. Poi, le storie di Arringa alla fine lasciano
sempre spazio alla speranza, o meglio alla possibilità di redenzione da
parte dei protagonisti.
Rispetto agli altri, “Babel” è costruito in maniera più lineare. Come mai questa decisione?
A.G.I. – In realtà non decidiamo ai quale sarà lo sviluppo narrativo di
una pellicola. Le storie di Guillermo Arriaga sono sempre parte a
qualsiasi ipotesi di costruzione cinematografica, quindi lo sviluppo
narrativo ci viene alla fine suggerito proprio da quello che abbiamo
girato, dalle sensazioni e dagli spunti narrativi che ci propone.
Certo, per “babel” sapevo già però che la linearità sarebbe stata una
componente fondamentale per mettere in scena una sceneggiatura così
bella e complessa, già di per sé molto sfaccettata.
Come si trova a lavorare con produzioni ed attori americani, con star hollywoodiane?
A.G.I. – Benissimo, perché prima di tutto si tratta di grandi
professionisti, persone capaci di dare il massimo anche nelle
situazioni più complicate. Quello che si vede sui giornali riguardo
star come Sean Penn, Naomi Watts o Brad Pitt è solo l’involucro, la
parte più superficiale del loro lavoro. Sul set mi trovo di fronte a
persone capaci di capire subito ciò che chiedo loro e soprattutto in
grado di restituirmelo alla perfezione quando sono di fronte la
macchina da presa. Per quanto riguarda il cast, fino ad ora ho avuto la
grande fortuna di lavorare con amici che mi seguono fin dall’inizio:
con il direttore della fotografia ad esempio, Rodrigo Prieto, non
abbiamo più quasi bisogno di confrontarci sulle nostre idee quando
giriamo. C’è un’affinità di vedute e di intenti ormai collaudata con
tutti.
Cosa ha dovuto cambiare del suo stile per recitare con un attore carismatico come Brad Pitt?
C.B. – Assolutamente nulla. Io avevo un ruolo che mi permetteva di
lavorare per sottrazione, o meglio di stilizzare la mia
interpretazione. Brad invece doveva tenere il filo emozionale del
nostro racconto, per cui doveva esercitare una forte attrazione
drammatica per risultare credibile. Penso che, aiutati ovviamente da
Alejandro, abbiamo ottenuto un ottimo risultato.
Cosa ne pensa di questa forte compenetrazione di registi e tecnici di origine messicana nella Hollywood contemporanea?
A.G.I. – Non posso che esserne entusiasta. La mia generazione ha amato
molto e soprattutto studiato con passione, quasi con riverenza, il
cinema americano. Trovarsi adesso all’interno dei suoi meccanismi e
poterli sfruttare in tutte le loro potenzialità e un’occasione
irripetibile.


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