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Delusione per Coppola e Dumont

Il sontuoso "Marie Antoinette" è una rivisitazione elegantemente post-moderna del mito della più famosa regina di Francia, che però non si riscatta mai da un senso ingombrante di vacuità

Marie-Antoinette

26.05.2006 - Autore: Adriano Ercolani
 

Chi si aspettava un film francese in grado di partecipare in maniera competitiva allo sprint per i premi più importanti fino ad ora non può che essere deluso; anche il lungometraggio transalpino più atteso, Flandres di Bruno Dumont, non ha certo scaldato i cuori della critica, e visto il tipo di cinema arduo dell’autore, sicuramente non farà incetta neppure tra il pubblico.

Partiamo però col sottolineare che, nonostante questa pellicola non sia di certo apprezzabile, a nostro avviso si presenta comunque come l’opera più compiuta e coerente di un regista tra i più sopravvalutati degli ultimi anni. Ricordiamo che il suo insensato “L’umanità” (L’Humanité, 1999) conquistò ben tre riconoscimenti qui a Cannes, aggiudicandosi il Gran Premio della Giuria e la Palma d’Oro per entrambe le interpretazioni.

Tornado a Flandres, il film denota una maggiore attenzione rispetto ai precedenti suoi lavori per quanto riguarda la costruzione della storia ed il ritmo che il montaggio impartisce alla vicenda. Molto più fluido e logico nella narrazione rispetto al solito, il film si impantana clamorosamente nell’ambientazione della guerra, in cui si scorge una fastidiosa tendenza di Dumont ad un citazionismo non troppo comprensibile: ogni sequenza ambientata in un fantomatico paese del Medio Oriente (l’Iraq ovviamente, ma non è mai esplicitamente dichiarato), sembra essere ripresa da un film americano ambientato in Vietnam; per chi conosce un minimo di war-movie americani, sarà impossibile non riconoscere delle scopiazzature da Full Metal Racket (id., 1987), “Vittime di Guerra” (Casualties of War, 1989), Il Cacciatore (The Deer Hunter, 1978) ed addirittura Forrest Gump(id., 1994). Ma cosa c’entrano queste pellicole con il cinema di Dumont?

L’altra grossa, inaspettata delusione del concorso è invece arrivata da Sofia Coppola, che dopo la toccante e sincera parentesi intimista di Lost in Translation (id., 2003), torna alle atmosfere troppo civettuole e posticce de Il Giardino delle vergini suicide (The Virgin Suicide, 1999): il suo sontuoso Marie Antoinette risulta essere una rivisitazione elegantemente post-moderna del mito della più famosa regina di Francia, che però non si riscatta mai da un senso ingombrante di vacuità: scenografie, costumi, la bella fotografia di Lance Acord, ma soprattutto le interpretazioni smorfiose di Kirsten Dunst e Jason Schwartzmann, imprigionano il lungometraggio in una gabbia cromatica tanto colorata quanto poco ficcante.

Visto il materiale potenzialmente ottimo, la Coppola avrebbe dovuto forse maggiormente lavorare sull’introspezione dei personaggi piuttosto che sulla resa estetica, elaborata ma alla fine inespressiva. Discontinuo ed eccessivamente modaiolo Marie Antoinette segna un deludente passo indietro da parte della Coppola, talento cinematografico che ancora non sembra trovare un equilibrio tra forma e contenuto.