

NOTIZIE
Continua
Seconda parte

01.02.2001 - Autore: Fabrizio Marchetti
In carriera ha avuto loccasione di lavorare con diversi registi di fama mondiale, ancor oggi ricordati nei manuali di cinema. Quale è stata lesperienza professionale che lha legata a loro?
L.V Quando ho lavorato con i vari Monicelli, Germi, Bolognini e Lizzani si creava un clima dintesa assoluta. A questi registi tu davi il tuo lavoro, lo discutevano, a volte te lo facevano riscrivere, ma finivano sempre per guidarti. Poi però era il loro momento, lo realizzavano ed io scrittore andavo al cinema e potevo ammirare la mia creatura sublimata ed esaltata dal loro modo di vedere le cose. Ho collaborato con più di trenta cineasti internazionali e con tutti ho lavorato con grande passione, tenendo conto delle loro esigenze per poi ottenere grandi gratificazioni ad opere finite. Sulla carta è difficile capire le cose ma, quando le vedi sullo schermo, pregi e difetti vengono fuori. Ebbene io vedevo solo i pregi e ciò è una caratteristica di tutti i grandi registi. Qualcuno era più ruvido, qualcuno più esigente però poi alla fine quello che contava era il risultato. Germi, che fu il mio maestro e mi introdusse nel mondo dove lavoro, mi faceva riscrivere certe scene anche sette o otto volte, anche perché era un bravo scrittore. Spremeva quello che avevo dentro e mi invitava a migliorare i miei testi in modo tale da avvicinarmi il più possibile allidea che aveva in mente. Se non lo accontentavo era capace di prendere carta e penna e scrivere la sceneggiatura da solo. Desiderava comunque che le sue trovate venissero da me opportunamente filtrate.
E cosa può dirci dellesperienza con Billy Wilder?
L.V. Billy è un carissimo amico oltre che un regista straordinario. Nel 1972 ho avuto modo di lavorare con lui al film Avanti!, ribattezzato qui in Italia col titolo Che cosa è successo tra mio padre e mia madre?. I protagonisti erano Jack Lemmon e Juliet Mills. Poi avevamo intenzione di scrivere un altro lavoro insieme ma lui si è ammalato e non se ne è fatto più niente. Tuttora comunque il nostro legame è profondissimo: ci sentiamo almeno una volta alla settimana e ogni volta che mi reco in America passo a trovarlo.
Cè un regista con cui avrebbe voluto lavorare e, per forza di cose, non cè mai riuscito?
L.V Certamente. Con Peter Bogdanovich ho scritto film che non sono mai stati realizzati; anche con lui però ho instaurato una sincera amicizia che risale al 1971. A quel tempo, per volere della United Artists, Bogdanovich doveva girare il film Giù la testa, la cui sceneggiatura era stata affidata a me e a Sergio Donati. Leone aveva invece deciso di fare solo il produttore. Sa, un regista che fa il produttore di un altro regista era una formula che non funzionava già in partenza. Mettiamoci anche il fatto che Sergio proveniva da quattro grandissimi successi internazionali (Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto e il cattivo e Cera una volta il West) e per questo era un po seduto sul trono. Invece Peter era caratterialmente molto testardo e si capisce, perciò, come il naturale sviluppo degli eventi portò alla collisione dei due artisti. Dopo molti litigi, una sera ricevetti la telefonata di un Leone infuriato che mi comunicò lintenzione di mandar via Bogdanovich. Personalmente mi dispiaceva perché avevo intuito il talento del ragazzo ma nulla potevo fare dinanzi alla decisione presa da Sergio. Senza dire niente a nessuno, comunque, salii sul primo aereo per New York e andai a trovare il Presidente della United Artists. Gli raccontai tutta la storia e rinnovai la mia stima verso Bogdanovich che nel frattempo era già di ritorno. Il film lo diresse, poi, lo stesso Leone ma Peter, alla prima occasione, chiamò per ringraziarmi. Poi lui ha realizzato subito successi incredibili come Lultimo spettacolo, Ma papà ti manda sola e Paper Moon. Insieme a lui vidi altri due progetti sfumare sul nascere: una storia autobiografica che mi aveva visto coinvolto in una relazione con una ragazza di sedici anni e Sabato, domenica e lunedì, un film tratto dalla commedia di Edoardo De Filippo, con Sofia Loren tra i protagonisti. Anche in quel caso non se ne fece nulla ma siamo rimasti lo stesso grandi amici.
Ben nove opere italiane presentate a Berlino, due in concorso ed altre sette ripartite nelle diverse sezioni della manifestazione. Come interpreta questo segnale del cinema italiano?
L.V. Non mi sento molto ferrato in materia poiché sono fuori giro in Italia, mentre fortunatamente lavoro ancora con gli americani. In Italia non ho più molti contatti, né del resto voglio averli. Credo che ci sia la maniacale tendenza fra i registi a voler diventare autori a tutti i costi, non accettando la collaborazione di chi ha più esperienza di loro in alcuni settori di lavorazione. Non per questo viene meno limpressione che in circolazione ci siano giovani di talento. Nella mia testa circolano i nomi di ragazzi di assoluto valore come Salvatores, Virzì, DAlatri e Amelio. Anche il giovane Tognazzi non è male, così come ho apprezzato molto i lavori di Marco Tullio Giordana e Silvio Soldini, rispettivamente I cento passi e Pane e Tulipani. Infine, cè Roberto Benigni che è un mimo straordinario, anche se un non regista. Nonostante i suoi limiti tecnico professionali, è riuscito comunque a far parlare di sé in tutto il mondo. Quindi, tanto di cappello per la sua incredibile abilità di comico.