Olivier Assayas prende il cinema e prova a sollevarlo dai
confini territoriali. Dallo sguardo aereo si interessa alle reazioni
dell’individuo che vive borderline. Che cavalca la vita con un piede
nella staffa di un paese, di una cultura e un piede in un’altra realtà.
Gli ambienti parlano al posto dei personaggi. Provano a dare
un’immagine alle loro emozioni. Tra Parigi, Londra e il Canada si
compone/scompone la frammentarietà culturale di Emily. La sua fragilità
pare fatta di tanti cocci diversi che provano a stare insieme. Di tante
sonorità linguistiche che arricchiscono ma si confondono. Ecco il
cinema di lontananze che prova ad inscenare Assayas in Clean.
La vicenda prende l’abbrivio dall’anonimo skyline industriale di
Hamilton, una cittadina di provincia canadese. Poi nel sotterraneo
Grizzly Lunge dove suona una band post-rock. Poi la tragedia. Lee, ex
rock-star di successo negli anni ‘80, muore per overdose in uno
squallido motel. Emily, compagnia d’arte e di vita, è accusata
dell’omicidio avendogli fornito l’eroina. La vicenda si snoda a quel
punto tra il Canada e l’Europa, pedinando la drammatica parabola di
Emily. Da musicista emergente è costretta a ricominciare da zero. Un
pellegrinaggio in cerca di una nuova esistenza. Liberarsi dalla
tossicodipendenza. Poi un impiego umile. Una vita normale per poter
riabbracciare il figlioletto, nel frattempo preso in custodia dai
genitori di Lee. Quando il mosaico della vita pare ricomporsi dopo
immani sforzi, arriva da San Francisco l’opportunità di rientrare nel
giro della musica. “Pulita”: dice il titolo del malinconico “Clean”.
Come spera di essere ormai Emily. E’ proprio la musica la
macro-location del film. Un elemento che si è sempre aggirato con
fascino nei film di Assayas stavolta è l’asse centrale.
Come gli auteurs della Novelle Vague, Assayas viene dall’esperienza di
critico ai Chaiers du cinema. Lui è un figlio non riconosciuto della
Novelle Vague, e anche lui non riconosce granchè quei registi. Stavolta
prova a cucire tutto il film su misura per Meggie. Il vestito è da
sarto consumato per far risplendere l’attrice. Maggie Cheung, ex
compagna di vita del regista, resa diva da Wong-Kar-Wai, si carica
sulle spalle tutto il peso drammatico del film, e porta a casa la Palma
d’oro a Cannes del 2004. Dopo un film politico come DemonLover torna a
prendersi cura delle emozioni di un personaggio. Con una leggerissima
cinepresa a spalla prova a regalare a Clean il sapore della vita colta
al volo. E invece resta solo un senso di finzione opprimente.
Vedendolo, si pensa al tè al posto del whisky e alle caramelle al posto
delle pasticche.
Ma può essere che ogni volta debba venir giù Nick Nolte a mettere tutto
a posto? Nel personaggio disincantato di Albrecht, il padre di Lee,
regala rughe ed esperienza. E soprattutto offre un po’ di finzione ben
recitata e non quel realismo fasullo che traspira per il resto del
film. Oh, chiaro, sempre meglio che andare dal dentista. Che però
finisce per darti più emozioni.


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Clean
Olivier Assayas prende il cinema e prova a sollevarlo dai confini territoriali. Dallo sguardo aereo si interessa alle reazioni dell'individuo che vive borderline

12.04.2007 - Autore: Claudio Moretti