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Chiaroscuri ad Oriente

La prima giornata di proiezioni ha riservato subito molti spunti di riflessione, ed in particolare quello che lega il diverso momento artistico che stanno vivendo due dei maggiori esponenti del cinema asiatico: Takeshi Kitano ed Ang Lee

Lust, Caution

30.08.2007 - Autore: Adriano Ercolani
La prima giornata di proiezioni ha riservato subito molti spunti di riflessione, ed in particolare quello che lega il diverso momento artistico che stanno vivendo due dei maggiori esponenti della “new wave” che sta vivendo il cinema asiatico in questi ultimi anni.
Stiamo parlando di Takeshi Kitano ed Ang Lee, due cineasti dal background culturale e poetico radicalmente opposto, ma uniti dal desiderio di raccontare a loro modo (cinematografico) la loro personale esperienza legata alla Settima Arte.

Partiamo da Kitano, che in maniera più esplicita sta lavorando e giocando sulla sua odierna concezione del cinema, vissuto in questo momento come faticosa ricerca di ispirazione: e su questa crisi creativa, come il precedente “Takeshi’s” (2005), gioca il suo nuovo “Glory to the Filmmaker”, riflessione tutt’altro che seriosa sulla fatica di essere un cineasta di successo e sulla ricerca di un’opera che accontenti sempre i gusti del vasto pubblico. Anche se maggiormente carico di spunti divertenti rispetto al precedente, anche questo nuovo lungometraggio soffre di un decisamente scarso tasso di ispirazione: sembra ormai evidente che Kitano da “Zatoichi” in poi non ha molto da raccontare, e scegliere la strada dell’auto-parodia non giova di certo alla ricerca di una nuova vena artistica. “Kanyoku Banzai” (questo il titolo in originale) è un lungometraggio verso il quale l’interesse dello spettatore si sgonfia prestissimo, lasciando spazio per la sorpresa attonita verso un numero esagerato e reiterato di gags difficili da digerire. E, cosa forse peggiore, a quanto pare l’autore sta già progettando un terzo capitolo ancora più radicale di questo: lo attendiamo con malcelata preoccupazione…

Completamente diverso è il discorso per “Lust, Caution”, lungometraggio-fiume con cui Ang Lee è tornato a girare in oriente dopo i fasti de “La Tigre e il dragone”: muovendosi con equilibrio tra i registri mai facili della spy-story e del melodramma, il regista ha costruito un film sicuramente imperfetto, ma che si rivela comunque una testimonianza preziosa della sua necessità continua di affrontare sempre nuove sfide, sia a livello narrativo che estetico. Lo stile di Lee va sempre più orientandosi verso una sua personale “classicità” della messa in scena, che il regista questa volta sfrutta per impreziosire la visione con immagini estremamente eleganti e ricercate  - da non sottovalutare anche il merito del direttore della fotografia, il messicano Rodrigo Prieto. Anche se indubbiamente prolisso, soprattutto nella prima parte, “Lust, Caution” affascina per il suo equilibrio tra la sinuosità, la sensualità della vicenda narrata, e la potenza delle immagini.

Sintetizzando il discorso, sia Takeshi Kitano che Ang Lee non hanno certamente presentato a Venezia le loro migliori opere: ma se il primo inizia a diventare sinceramente irritante della sua brama di voler essere a tutti i costi autoironico, l’altro ha invece dato prova di enorme volontà nella ricerca di un cinema mai scontato e sempre personale, capace di esplicitare in pieno il senso di sfida che traspare da ogni suo lavoro.
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