Biennale Venezia 2013
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Parkland - La nostra recensione

L'attentato a Kennedy visto dalla gente comune. Ma Parkland è solo retorica strappalacrime

01.09.2013 - Autore: Marco Triolo
L'assassinio di John Kennedy è stato uno dei momenti più neri della storia americana, ed è pertanto una materia difficilissima da raccontare senza scadere nella retorica nazionalista. Oliver Stone ci riuscì magnificamente con il suo JFK, affresco complesso che tentava di fare luce su quanto di poco chiaro si nascondeva dietro un fatto all'apparenza tanto semplice: c'è una vittima, il presidente americano, e c'è un colpevole, Lee Harvey Oswald. Solo che le cose forse non sono proprio andate così.

All'esordiente Peter Landesman non interessa, comunque, raccontare cospirazioni e farsi un bagno di complottismo. Al centro di Parkland ci sono le vicende umane più intime di un gruppo di persone legate in qualche modo alla tragedia di Dallas, dai medici dell'ospedale Parkland, che tentarono di rianimare il presidente, al fratello di Oswald e ad Abraham Zapruder, il cittadino di Dallas che filmò senza volerlo la sparatoria.

Un'impresa che potrebbe anche avere il suo valore - e sulla carta tenta di dire qualcosa di nuovo su quei tragici giorni del 1963 - ma purtroppo Landesman scade costantemente nella più trita retorica che si possa immaginare. è come se nel suo ufficio avesse appeso due tabelle, quella delle cose da fare e quelle delle cose da non fare quando si realizza un film sulla storia americana, e abbia infine portato con sé quella sbagliata sul set. Parkland imbrocca qualunque possibile cliché: i personaggi parlano proprio come personaggi di un film, a discapito dei filmati di repertorio utilizzati per rendere il tutto più "realistico", e Landesman sembra convinto che l'unico modo per rendere su pellicola la commozione e il raccoglimento di una nazione nella sua ora più buia sia quello di far continuamente piangere e pregare i suoi protagonisti. Oltretutto, non è in grado di rendere la tensione di un momento così concitato o di infondere gravitas alle sequenze cruciali, come quella dell'assassinio che apre il film.

Anche il personaggio del fratello di Oswald (interpretato da James Badge Dale), che sulla carta potrebbe essere materiale perfetto per uno scavo psicologico e una riflessione sul concetto di colpa e di come possa essere pericolosamente ereditaria, viene ridotto al classico stereotipo del sano padre di famiglia americano pieno di valori. Il resto del cast (Paul Giamatti, Zac Efron e Billy Bob Thornton, tra gli altri) fa quel che può, ma incarna una galleria di personaggi che palesano il fatto di essere stati scritti "a posteriori", tanto sono consapevoli non solo del momento storico in cui si trovano, ma anche di quello che significherà per il futuro dell'America.

Parkland è uno sterile esercizio di patriottismo, talmente naif da risultare sospetto. Sono forse finiti i tempi del grande cinema americano d'inchiesta? Speriamo proprio di no.

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