Festival di Torino 2013
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Il treno va a Mosca – La nostra recensione

Torino: l’Italia in concorso con un documentario sulla fine dell’utopia sovietica

Il treno va a Mosca

26.11.2013 - Autore: Marco Triolo
L’utopia e la fine di essa quando si scontra con l’inevitabile amarezza della realtà. Il treno va a Mosca di Federico Ferrone e Michele Manzolini, presentato in concorso al Torino Film Festival, è un’impresa complessa e affascinante, pur se non completamente riuscita. Sfruttando i filmini in 8 mm realizzati da un barbiere di Alfonsine (in provincia di Ravenna), Sauro Ravaglia, chiamato a fare da voce narrante, i due registi hanno tentato di creare un affresco atipico su una parte della storia del dopoguerra italiano.

Al centro c’è un’impresa vera, il viaggio organizzato dalla Federazione Giovani Comunisti Italiani che ha portato Ravaglia e un gruppo di amici a Mosca, in occasione del Festival Mondiale della Gioventù. Il documentario parte rievocando la realtà di un piccolo borgo di fine anni Cinquanta, l’innocenza, la semplicità di un luogo dove i sindaci sono tutti barbieri e iscritti al Partito Comunista. Dove l’Unione Sovietica, tanto lontana geograficamente quanto distante culturalmente, è ancora vista come un’utopia in cui “i padroni sono stati cacciati e la terra è stata data ai contadini”. È con questa speranza nel cuore – e salutando una mamma piangente ma fiera – che Ravaglia parte alla volta della capitale russa e lì viene travolto dal fasto delle celebrazioni, intese a mostrare il volto sereno e pacifico dell’Unione. Un volto, ovviamente, falso, sotto a cui si nascondeva uno stato assolutista che opprimeva quello stesso popolo che, in teoria, avrebbe dovuto costituirlo.

Il bello del film di Ferrone e Manzolini è proprio vedere raccontato, con poche parole e tantissime immagini montate a dovere, il momento in cui Ravaglia e i suoi si rendono conto che qualcosa non va, che c’è uno scollamento tra il fasto ufficiale (“Quanto è costata questa manifestazione?”, chiede uno degli italiani a un generale) e la povera gente che vive per strada e muore di fame ai margini della città. Le immagini ci mostrano, ancora e ancora, la Festa della Gioventù e le ballerine del Bolshoi – la facciata “glamour”. Le parole e i filmati di Ravaglia dicono altro.

In fondo, i registi attaccano una coda con Ravaglia che viaggia con intenti simili in Algeria. Si tratta di un segmento forse di troppo, meno focalizzato. L’operazione, in ogni caso, resta interessante.

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