Festival del cinema noir 2013
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Enemy: Jake Gyllenhaal si sdoppia per il regista di Prisoners

A Courmayeur l'incubo lisergico di Denis Villeneuve

Enemy

14.12.2013 - Autore: Marco Triolo
L'idea del doppio è un topos del cinema thriller e noir. A volte, esso è la rappresentazione del lato oscuro del protagonista, altre volte qualcuno con cui sviluppare un rapporto di dipendenza morbosa. Cronenberg lo ha sfruttato con successo nel classico Inseparabili e Denis Villeneuve, autore di La donna che canta e del recente Prisoners, lo fa suo con una certa efficacia in Enemy.

Al centro delle vicende, un insegnante di storia (Jake Gyllenhaal) dalla vita abbastanza monotona, che un giorno scopre per caso di avere un sosia perfetto in un attore di terz'ordine che sta tentando di sfondare. Dopo il loro incontro, le vite di entrambi verranno travolte in un vortice di sospetti e gelosie, fino a un finale (almeno in parte) rivelatore.

Il film, tratto dal romanzo L'uomo duplicato di José Saramago, guarda palesemente a Cronenberg – d'altro canto Villeneuve è canadese e il film è ambientato a Toronto, come Inseparabili – ma non solo. C'è sicuramente un accenno di body horror, con relative mutazioni e ibridi mostruosi, eppure si intravede anche il tessuto del Lynch più inquietante, specialmente gli sdoppiamenti vertiginosi di Strade perdute e quella capacità di evocare terrore anche solo riprendendo un ambiente buio o un dettaglio surreale.

Due sono le coordinate di Enemy: da un lato, una Toronto spettrale, bagnata da una luce giallastra e fotografata con colori desaturati che la rendono uno sfondo freddo e desolato, perfetto per questa storia di solitudine. Dall'altro, il continuo passaggio tra sogno e realtà, giostrato con enorme abilità visiva. Splendido l'uso del totem del ragno, inteso come forza creatrice e ordine tessuto nel caos dell'esistenza, associato alla donna in una serie di immagini capaci di suscitare brividi e, in almeno un caso, un discreto balzo dalla poltrona, specialmente per gli aracnofobici.

In mezzo a tutto questo si muove un Gyllenhaal sdoppiato, da un lato tormentato e dall'altro risoluto, ma sempre ipnotico. Enemy è il suo show e l'attore non delude, anche quando la storia prende una piega in apparenza banale. Poi arriva un finale in grado di dare senso all'intera opera, anche se lascia molto all'interpretazione dello spettatore. Ma, in fondo, non è necessario, neppure auspicabile capire tutto: più che un film, Enemy è un'esperienza, e va gustata di pancia più che di testa. Bisogna lasciarsi andare a questo incubo lisergico, e solo allora si potrà godere pienamente della visione di uno degli autori più interessanti del cinema contemporaneo.

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