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Ingiustizie da Oscar: i film sopravvalutati e gli esclusi

Da Shakespeare in Love a The Artist, quelle volte in cui l'Academy si è lasciata incantare, sbagliando mira

Shakespeare in Love

10.02.2015 - Autore: Marco Triolo
Quante volte, seguendo la Notte degli Oscar o ascoltandone i risultati al TG del giorno dopo, ci siamo detti “Ma no! Avrebbe dovuto vincere quest'altro film o attore...”? Chiunque abbia un po' di passione per le statuette dorate Made in USA si è ritrovato prima o poi a fare questi discorsi e la cosa succederà puntualmente anche dopo la cerimonia di domenica 22 febbraio, quando verranno consegnati gli 87mi Academy Awards.


Martin Sheen in Apocalypse Now

Casi clamorosi di ingiustizia, o semplice inconsapevolezza da parte dei membri dell'Academy, se ne sono visti tanti nel corso di ottant'anni di storia degli Oscar. Ci sono state le volte in cui i giurati hanno preferito andare sul sicuro, scegliendo un film dalla struttura classica contro uno dalle idee, di messa in scena, di storia, montaggio e recitazione, troppo all'avanguardia. In altri casi, semplicemente non si sono accorti della portata epocale di un film. Ad esempio Apocalypse Now, il capolavoro di Francis Ford Coppola che vinse solamente due Oscar (per la fotografia del nostro Vittorio Storaro, e per il montaggio). Mentre la sceneggiatura di John Milius, l'imponenza della regia e della messa in scena, le prove attoriali di Martin Sheen e Marlon Brando vennero totalmente ignorate in favore di cosa? Un film sul divorzio, tema sicuramente scottante ma, insomma, come fare paragoni tra Apocalypse Now e Kramer contro Kramer?

Eppure i drammoni a Hollywood piacciono. Lo prova la vittoria di Gente comune, debutto alla regia di Robert Redford, agli Oscar del 1981, un anno dopo la sconfitta morale di Coppola. Redford si trovò a competere con film come Elephant Man e Toro scatenato, e i loro registi David Lynch e Martin Scorsese, e vinse. Per Scorsese fu l'inizio di una lunghissima trafila di nomination a vuoto, fino alla vittoria tardiva con The Departed nel 2007. Un po' il rapporto con l'Academy di Quentin Tarantino, che nell'anno del suo grande classico Pulp Fiction (1994) ebbe la sfortuna di scontrarsi direttamente con Forrest Gump. Oltre alla sconfitta nelle categorie miglior film e regia, ci fu la beffa della seconda vittoria di fila di Tom Hanks (dopo Philadelphia) come miglior attore, a scapito del povero John Travolta, nel ruolo che giustamente lo rilanciò. Pulp Fiction vinse solo per la sceneggiatura: un po' poco.


Gente comune

Tra i casi clamorosi degli ultimi vent'anni, un posto d'onore spetta decisamente a Shakespeare in Love, trionfatore nel 1999 con ben sette Oscar, tra cui miglior film, sceneggiatura, attrice protagonista (Gwyneth Paltrow) e non protagonista (Judi Dench). Una commediola gradevole, ma materiale da Oscar? Assolutamente no. Considerando poi che lo stesso anno erano in lizza Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg (quattro statuette tecniche più la regia) e La sottile linea rossa, ovvero l'eccezionale ritorno in scena di Terrence Malick a vent'anni dal suo film precedente, non si capisce davvero come l'Academy abbia potuto prediligere Joseph Fiennes e Gwyneth Paltrow in costume cinquecentesco. E poi ancora American Beauty, premiato più per l'impatto culturale che per i meriti artistici, visto che oggi pochi lo menzionano tra i classici degli anni Duemila. Il gladiatore, cinque Oscar nel 2001, caso incredibile in cui l'Academy scambiò un popcorn movie per un capolavoro alla Cecil B. DeMille. Ridley Scott fu praticamente risarcito per tutte le volte che era stato ignorato, ma il grande autore di Alien e Blade Runner aveva già lasciato posto al regista tuttofare. E infine A Beautiful Mind, grande vittoria di Ron Howard nel 2002. Quattro Oscar, tra cui film e regia, per un film ben confezionato ma un po' troppo ruffiano. Il David Lynch di Mulholland Drive sta ancora aspettando la statuetta per la regia.

Tra gli scontri epici ricordiamo quello tra Chicago e Gangs of New York nel 2003: il musical di Rob Marshall (sei Oscar) contro l'ambizioso affresco storico di Martin Scorsese, sua prima collaborazione con Leonardo DiCaprio. Dieci nomination andate totalmente a vuoto. Oppure, nel 2006, il testa a testa (tre statuette l'uno) fra Crash di Paul Haggis e I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee, che fu tra i pochi nella storia a vincere per la regia ma non per il film. E poi, ancora, Il discorso del re di Tom Hooper, commedia garbata e ben recitata che portò a casa quattro premi (miglior film, regia, sceneggiatura originale e attore, a Colin Firth) nel 2011, alla faccia di David Fincher e del suo capolavoro The Social Network. Un film esemplare sull'era informatica che riuscì a incassare solo tre Oscar (a sceneggiatura non originale, montaggio e colonna sonora), ma che sarà ricordato molto più a lungo del suo avversario.


Il discorso del re

Negli ultimi anni non possiamo dimenticare il trionfo (nel 2009) di The Millionaire, ruffianissima avventura sentimentale diretta da Danny Boyle, capace di strappare all'Academy otto Oscar, tra cui miglior film, regia, sceneggiatura non originale, fotografia e montaggio. Una trappola per statuette, così come il più recente The Artist, il film muto di Michel Hazanavicius che ha incantato l'Academy con il suo sapore vintage ed esotico. I giurati lo premiarono con gli Oscar a miglior film, regia, attore (Jean Dujardin), costumi e musiche. Ignorando totalmente avversari illustri come Hugo Cabret (ancora una volta Scorsese) e The Tree of Life di Terrence Malick. Il 2014 è stato infine l'anno in cui l'Academy ha "scordato" di premiare The Wolf of Wall Street, capolavoro di Scorsese con cinque nomination andate disgraziatamente a vuoto, tra cui l'ennesima al povero Leonardo DiCaprio.

Qui trovate il nostro speciale Oscar 2015 e qui tutte le nomination di quest'anno.