

Un giorno questo dolore ti sarà utile

James ha 18 anni e vive a New York. Finita la scuola, lavora part time nella galleria d'arte della madre dove non entra mai nessuno. Sarebbe arduo, d'altra parte, suscitare clamore intorno a opere di tendenza come le pattumiere dell'artista giapponese che vuole restare senza nome. Per ingannare il tempo, e nella speranza di trovare un'alternativa all'università, James cerca in rete una casa nel Midwest dove coltivare in pace le sue attività preferite - la lettura e la solitudine - ma per sua fortuna gli incauti agenti immobiliari gli riveleranno alcuni allarmanti inconvenienti della vita di provincia. Finché un giorno James entra in una chat di cuori solitari e, sotto falso nome, propone a John, il gestore della galleria che ne è un utente compulsivo, un appuntamento al buio.

Ammettiamolo, “Un giorno questo dolore ti sarà utile”
è la frase che tutti avremmo bisogno di sentirci dire in quel periodo
così complicato e frustrante che è l'adolescenza, in cui una guida
farebbe giusto comodo per capire quale direzione intraprendere nella
vita.
Di una guida avrebbe bisogno anche James Sveck (Toby Regbo),
diciassettenne che si sente diverso dai coetanei, non trova nei
genitori dei modelli da seguire, è confuso sulla sua identità sessuale e
non ha alcuna intenzione di andare al college. Starà a lui risolvere i
proprio problemi e le ansie da prestazione, con qualche piccolo aiuto da
parte della nonna (Ellen Burstyn) e di una life coach (Lucy Liu), e trovare il proprio posto nel mondo.
Roberto Faenza gira a New York questo racconto di formazione, tratto da un best-seller di Peter Cameron e situato in una curiosa via di mezzo tra “I dolori del giovane Werther” e “Tadpole” di Gary Winick. James è un giovane upper class, ricco, bello, colto, ama leggere e andare al cinema, ascolta musica classica. E' insomma il prototipo di tutto ciò che i suoi coetanei non sono, e per questo si sente un outsider.
Non sa cosa sia la normalità, ma d'altro canto vive in una famiglia in
cui il padre è un vanesio che si sottopone alla chirurgia plastica, la
madre sposa uomini per poi lasciarli dopo due giorni e la sorella ha una
relazione con un uomo molto più vecchio di lei e sposato, dunque forse
la normalità è un concetto un po' più fluido di quello che vorrebbero
fargli credere.
Faenza vorrebbe che parteggiassimo per James, per il suo viaggio alla
scoperta di se stesso, la sua presa di coscienza e il passaggio all'età
adulta. Peccato che l'immedesimazione sia impossibile:
la madre è proprietaria di una galleria d'arte, il padre un businessman.
James è ricco, come dicevamo, si aggira in un mondo fatto di costose
stanze d'albergo, feste esclusive, bottiglie di champagne. Vorrebbe
comprare un cottage con la mancetta. Poverino.
La conseguenza diretta è che James risulta insopportabile, e i suoi
problemi personali ridicoli. Davvero c'è bisogno di un film di un'ora e
quaranta per raccontare il dilemma esistenziale di un adolescente di
buona famiglia che non sa se andare al college o no? Faenza – ma forse la colpa è da attribuire a Cameron? – infila un personaggio fastidioso dietro l'altro, e finisce per “normalizzare” il tutto nell'ultimo quarto d'ora,
quando come da programma tutti i nodi vengono al pettine nel miglior
modo possibile, a tarallucci e vino. Alla fine, James sorride alla
telecamera, tanto per sottolineare al pubblico che, sì, ora ha fiducia
in se stesso e ha risolto tutto.
In tutto questo, la cosa migliore è come sempre Stephen Lang. L'attore di “Avatar” e “Terra Nova”
appare per un massimo di cinque minuti nel film, come se il suo fosse
un cortometraggio incastrato nel film. Il suo ruolo è quello del nuovo
marito della madre di James (Marcia Gay Harden),
un giocatore compulsivo scaricato dopo quarantotto ore dalle nozze.
Lang è anche l'unico a risultare umano in questa galleria di frigidi
ricconi dalle vite perfette. Piange, si infuria, sta in piedi sotto la
pioggia, chiede perdono per i suoi peccati. Se solo avesse avuto più
spazio...