The Lady
La straordinaria avventura umana e politica di Aung San Suu Kyi, la pacifista birmana da decenni attiva contro la dittatura nel suo paese e per la difesa dei diritti umani. Aung San Suu Kyi ? stata costretta agli arresti domiciliari quasi ininterrottamente dal 1989 al 2007 e separata a forza dal marito e dai figli residenti in Inghilterra. Nel 1991 ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace.
Obbiettivo alto, materia complicata e complessa, per la pellicola di apertura del Festival Internazionale del Film di Roma, “The Lady” di Luc Besson. La storia, la lotta, il rigore di Aung San Suu Kyi (Michelle Yeoh),
politica birmana, attivista e Premio Nobel per la Pace, costretta sotto
ricatto agli arresti domiciliari per ventidue anni. Gli eventi del film
ripercorrono la nascita dell'opposizione della donna contro la
dittatura militare birmana e gli sviluppi complicati della guerra fredda
scatenata da parte del regime contro “Suu”. Ma come ha precisato il regista durante la conferenza stampa, "The Lady" non è un film politico.
E' invece principalmente una storia di amore passionale e filiale, che
resiste alle lontananze fisiche e al dolore in nome di un progetto
comune: la libertà del popolo birmano.
Luc Besson, ha diretto il film, potendo contare su un lavoro di
preparazione incompleto, dove le figure di riferimento sono una,
inaccessibile al tempo delle riprese a causa della detenzione, e l'altra
purtroppo tragicamente e prematuramente scomparsa. Le difficoltà di
accesso al materiale di esperienza diretta riguardante Aung San Suu Kyi,
hanno contribuito sfavorevolmente a realizzare un film dove il
materiale reale, e le conoscenze pregresse dello spettatore invadono lo
schermo, conferendo merito e pathos ad una pellicola equilibrata solo a
brevi tratti. Il film non vuole essere politico, non ne
possiede infatti le sfumature, ma non si spiega la scelta di voler
comunque descrivere accuratamente un contesto sociale per buona parte
del film, che risulta così semplificato, bozzettistico e a tratti
estremamente caricato. Quanto alla decisione di dare centralità alla
storia d'amore, i rapporti tra “Suu” e il marito Micheal Artis (David Thewlis), sono spesso saturi di una formalità che se negli intenti ricalca la compostezza orientale e il frutto della lontananza, finisce per tenere lo spettatore a distanza di sicurezza. Solamente
nella parte finale quando la passione e la tragedia accelerano, si è
coinvolti, tentando di dimenticare la fatica di un'ora e mezza passata
ad osservare una reclusione ripetitiva.
Se è vero che anche dietro ogni donna c'è un grande uomo, e
dietro questa grande donna, uno Stato che palpita con essa, il film non è
all'altezza di dipingere l'interazione tra le parti. L'unica
figura completa e monolitica che si erige al di sopra di tutto è proprio
quella di Aung San Suu Kyi, ed è la forza della materia reale e la
necessità di divulgare una storia di libertà violate, a valicare lo
schermo, mentre il resto, con tutte le scusanti necessarie, è un
elemento accessorio e di disturbo alla visione.