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The Birth of a Nation – La recensione in anteprima

Il dramma di Nate Parker sulla schiavitù delude le aspettative e si limita a una lezioncina storica senza mordente

The Birth of a Nation

15.10.2016 - Autore: Marco Triolo (Nexta)
Ci sono film che, semplicemente, escono nel momento giusto. È il caso di The Birth of a Nation, debutto alla regia dell’attore Nate Parker che ha scelto il titolo del classico di David Wark Griffith Nascita di una nazione per ribaltarne l’ottica: laddove il Ku Klux Klan era visto come una congrega eroica, qui sono le vite degli schiavi africani al centro di una storia che riprende vicende realmente accadute. Quelle di Nat Turner (Parker), predicatore che, nel sud americano pre-Guerra Civile, guidò una rivolta di schiavi contro l’oppressione dei latifondisti.

 
The Birth of a Nation, dicevamo, esce nel momento giusto, quando il dibattito sul razzismo negli Stati Uniti è tornato all’apice e dopo che si è tanto parlato dell’esclusione delle minoranze etniche dagli ultimi due anni di Oscar. Altrimenti non si spiegherebbe come mai sia visto come il potenziale asso pigliatutto dei prossimi Academy Awards. Sia chiaro: la storia raccontata è importante, come è sempre importante dare voce agli oppressi e riflettere sulle ferite aperte del proprio passato. In America, poi, questo è fondamentale se si vuole sperare di arrivare a un futuro di vera pace e collaborazione. Ma le armi del cinema possono essere molto più affilate ed efficaci di così.
 
Parker paga tutta la sua inesperienza dietro la macchina da presa: la sua direzione è piuttosto piatta e non sa dare peso agli eventi narrati. Il che è un grosso problema, perché una storia così avrebbe bisogno di una direzione rigorosa, di uno sguardo capace di farsi esterno e freddo, per far risaltare ancora di più e senza retorica gli orrori raccontati. Si pensi a Steve McQueen e alla sua tenuta ineccepibile di 12 anni schiavo, un film che dovrebbe essere un modello a cui aspirare in questo genere di storie. Invece, Parker inonda il suo film di retorica perché non sa come altro dare spessore alla sofferenza di Nat Turner e dei suoi compagni di schiavitù. Quando c’è da coinvolgere emotivamente lo spettatore, lo fa dunque amplificando questa retorica e sbandierando con musica solenne e qualche ralenti l’importanza e la gravità di un determinato momento. La fotografia piatta da fiction televisiva, un digitale con un contrasto praticamente nullo, non riesce nemmeno a valorizzare la bellezza dei paesaggi naturali che dovrebbero fare da contraltare alle atrocità messe in scena.

 
Resta qualche buona intuizione, come ad esempio lo schiavista tormentato di Armie Hammer, per il quale si finisce inevitabilmente per parteggiare almeno un po’ quando arriva la resa dei conti. Ma qualsiasi slancio di approfondimento psicologico viene frenato da una scrittura immatura, che baratta la complessità con un’evoluzione a tappe stagne del protagonista. Persino la sua natura di predicatore viene male sfruttata, con una scena in particolare che sfiora il ridicolo involontario: quella in cui Turner informa i suoi compagni di aver “riletto la Bibbia” e capito che le motivazioni che giustificano la schiavitù vengono contraddette nel testo. Ogni passo avanti avviene, dunque, non in maniera organica, ma per mezzo di comodi “interruttori” che magicamente conducono la storia dove deve andare.
 
The Birth of a Nation non è un brutto film. È solo un film innocuo, che gioca sul sicuro quando dovrebbe invece sorprendere, calare lo spettatore nel fango e nel sangue con le vittime di uno dei crimini storici più gravi di sempre. È una lezioncina morale che rinuncia ad assestare un bel pugno nello stomaco e preferisce agitare l’indice in senso di sdegno. E se trionferà agli Oscar sarà solo perché è uscito nel momento giusto.
 
In uscita il 23 febbraio, The Birth of a Nation sarà distribuito in Italia da 20th Century Fox. Qui il trailer.