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Robinù – La nostra recensione

Le baby gang di Napoli raccontate sullo schermo senza sconti nel documentario presentato al Festival di Venezia 2016

Robinù

Robinù

09.09.2016 - Autore: Alessia Laudati (Nexta)
Napoli, sembra dire l’autore di Robinù, ti abbiamo vista nel tuo lato peggiore di malavita e violenza. Negli spari, nel degrado, in una incapacità di offrire un’alternativa a una vita fatta di crimini efferati e nichilismo. Nonostante ciò, nonostante la triste fama legata alla città, nonostante sia stata narrata in molti modi diversi, Michele Santoro da regista esordiente al cinema ha la capacità e la volontà di portarci ancora per mano in quell’inferno. Nello specifico nell’Ade della paranza dei bambini, la lotta che a Napoli negli ultimi due anni ha coinvolto bande di adolescenti, l'una contro l'altra a colpi di kalashnikov per il controllo del territorio e del mercato della droga. 
 
Il documentario segue quattro di questi boss. E tra racconti di baby gang e di vite disperate trova un ordine rovesciato di valori che mette al primo posto cose come soldi, donne, armi. Robinù è un documentario che racconta i ragazzi di Napoli direttamente dalla carceri di Poggioreale o Airola. Quelli che appartengono alle gang; cresciuti in strada e già finiti in carcere con condanne pesanti. Le loro famiglie e l’universo che sta attorno a questi ragazzi. Santoro intervista e lascia parlare i protagonisti senza particolari vezzi registici con l’uso di un tono asciutto. La vera novità quindi qui non è tanto il tema, la malavita napoletana, ma il modo in cui essa viene raccontata. Con pathos ma in totale assenza di filtri. Senza mediazioni. Senza celarsi dietro quell’idea che il racconto di Napoli debba essere in parte addolcito per non turbare eccessivamente gli animi.

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In Robinù si parla di criminali come Emanuele Sibillo, ucciso a 19 anni e icona del quartiere Forcella tanto da esercitare e aver esercitato una vera e propria mitizzazione nei più piccoli della zona. O di Michele Mazio, ora in carcere e in attesa di scontare una pena lunghissima che lo vedrà uscire praticamente quarantenne. E oltre ci sono le donne; le donne spacciatrici con figli a carico condannate agli arresti domiciliari che vivono con i loro bambini dietro quattro mura senza uscire. Dopo le persone invece, le idee. I soldi, il potere, la violenza. Non c’è altro. E Santoro non utilizza nessun appiglio per nasconderci una verità cruda che sta negli occhi di chi guarda e nella ferocia delle parole di chi racconta. Robinù è un documentario di denuncia duro e puro, non c’è che dire. Non si può raccontare; deve solamente essere visto in prima persona.
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