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Diavoli, la recensione della serie Sky con Alessandro Borghi e Patrick Dempsey

I diavoli dell'alta finanza controllano il mondo nella serie tratta dal romanzo di Guido Maria Brera

16.04.2020 - Autore: Marco Triolo
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I diavoli sono tra noi, ma non hanno le corna, la coda e il forcone. Indossano completi su misura, guidano auto costose e vivono in appartamenti di lusso. Diavoli, la nuova serie originale Sky Studios, una co-produzione internazionale girata a Londra e interpretata da un cast eterogeneo che include Alessandro Borghi, Patrick Dempsey e Kasia Smutniak, ci racconta il loro mondo. Ovvero il mondo dell'alta finanza, all'epoca della crisi economica greca (siamo nel 2011). Un mondo controllato da operatori senza scrupoli, che giocano con le vite delle persone per il loro tornaconto.



Al centro di questa ragnatela di inganni e intrighi troviamo Massimo Ruggero (Borghi), giovane promessa della finanza che scalpita per ereditare il posto di CEO di una grossa banca, e mette in moto una serie di piani per sbarazzarsi di un autorevole rivale. Quando però le sue macchinazioni hanno conseguenze impreviste e molto gravi, Massimo è costretto a indagare per discolparsi e incappa negli oscuri segreti dei suoi datori di lavoro.

Abbiamo visto in anteprima i primi due episodi di Diavoli, serie tratta dal romanzo di Guido Maria Brera, adattato da Ezio Abbate, uno degli sceneggiatori di Suburra – La serie. Vedendo solamente due episodi di una serie è sempre difficile dare un giudizio di massima. Anche perché, leggendo la trama del romanzo, scopriamo che “Massimo è pronto a salire in cima alla piramide della finanza londinese, ma proprio la vertigine della ricchezza e del successo lo fa entrare in crisi. Perché si accorge che il diavolo esiste, gestisce portafogli milionari e sta mettendo in pericolo il futuro dell'Occidente”. In sostanza, quello che ci si para davanti è un arco di maturazione che vedrà un affarista senza scrupoli trasformarsi in una sorta di eroe del popolo. Ma questo ovviamente è poco evidente nei primi due episodi.



Diavoli si muove su coordinate stilistiche e narrative ben collaudate nella televisione moderna, e soprattutto in quella italiana. Interni freddi ed eleganti come i protagonisti, musica elettronica, in generale un look da produzione internazionale di alto profilo. A incorniciare storie di “ricchi che piangono”, in cui l'opulenza di superficie si mescola alle tragedie umane nascoste sotto di essa.

Il problema di Diavoli, però, comune ad altre serie prodotte oggi nel nostro paese, è che alla modernità della confezione subentra troppo spesso la maniera. Diavoli si muove per cliché e fatica a trovare una voce originale. Massimo è un uomo elegante, sicuro di sé, che sa persino far da mangiare molto bene, che “viene dal basso” e si è fatto da sé. A un certo punto scopriamo che ha una moglie bipolare e tossicodipendente, che rientra nella sua vita e che gli autori utilizzano per svelarci il suo lato umano – con dei flashback in cui è uno studente coi capelli lunghi ancora non “danneggiato” dalle brutture del mondo – e farci empatizzare con lui.



Intorno a Massimo si muove un microcosmo che include: i suoi tre assistenti – che non vengono definiti meglio di così, non sono personaggi ma funzioni narrative che non fanno altro che entrare e uscire da uffici – il suo capo (Dempsey) e la moglie di questi (Smutniak), segnati dalla morte di un figlio in Iraq, una giornalista argentina (Laia Costa) che lo tampina per avere informazioni e infine il giovane genio Oliver Harris (Malachi Kirby, foto in alto), una specie di Sherlock Holmes che sa hackerare qualsiasi cosa serva alla sceneggiatura e può capire le intenzioni di una persona semplicemente leggendone il linguaggio del corpo.

Come detto, prevedere dove andrà a parare una serie dopo aver visto solo due puntate è difficile. Perché se gli sceneggiatori sapranno dare risalto all'umanità di Massimo, se sapranno scavare dentro di lui e trovare strade originali per descrivere la sua conversione, allora Diavoli potrebbe salvarsi. Così come stanno le cose, siamo di fronte a un prodotto molto derivativo, in cui tutto, dal plot ai personaggi, si muove su linee già tracciate da qualcun altro. L'equivalente televisivo del “predicare al coro”: Diavoli pare una serie pensata per chi già capisce qualcosa di alta finanza, per chi già ne condanna i meccanismi a priori e vuole che questo tipo di storie sia raccontato sempre esattamente così.