Le Mans '66 - La Grande Sfida

Le Mans

Il film esplora il periodo della storica rivalità tra Henry Ford II ed Enzo Ferrari nella seconda metà degli anni ’60. E la loro sfida a Le Mans nel 1966. Un evento conosciuto come “la guerra di 24 ore”. Il ’66 segnò l’epoca del trionfo della Ford che mise fine al dominio della Ferrari. Scopriremo dunque l’impresa di un gruppo di eccentrici ma determinati ingegneri americani che, sotto la guida di Carroll Shelby (Damon) e del suo pilota britannico Ken Miles (Bale), vennero incaricati da Henry Ford II (Tracy Letts) di creare da zero un’automobile nuova, in soli 90 giorni, capace di sconfiggere la Ferrari al campionato mondiale di Le Mans.

VALUTAZIONE FILM.IT
TITOLO ORIGINALE
Ford v. Ferrari 
GENERE
NAZIONE
Stati Uniti
REGIA
CAST
DISTRIBUZIONE
20th Century Fox
DURATA
152 min.
USCITA CINEMA
14/11/2019
ANNO DI DISTRIBUZIONE
2019
di Gian Luca Pisacane
 
Uomini e motori, brividi sull’asfalto. Piloti da una parte, macchine dall’altra. A dividerli c’è la strada, il circuito. Una volta iniziava così la 24 Ore di Le Mans, bisognava raggiungere il proprio bolide di corsa, per poi mettere in moto e partire prima degli avversari. Le Mans ’66 – La grande sfida racconta di quegli attimi, della tensione tra carne e metallo, tra mani e volante. Un rapporto amoroso che rasenta la follia, supera i legami umani, diventa ossessione.
 
L’obiettivo è battere il contachilometri, essere più veloci della propria creazione. È una riflessione su cosa significhi essere sempre al limite, un “Chi sei?” a 7mila giri al minuto. Tra una marmitta e un pistone batte un cuore continuamente sotto stress. In un conflitto senza esclusione di colpi: “Non è la prima volta che la Ford va in guerra in Europa”, spiega Henry Ford II.
 
Due fazioni, un unico campo di battaglia: Le Mans. Il regista James Mangold racconta quel circuito, descrivendo la Ferrari come scuderia da battere. Dall’altro lato ci sono gli americani, e così nasce il titolo originale Ford v Ferrari.
 
Sembra un richiamo a un incontro di boxe, e non è un caso. I due contendenti si avvicinano, si sfiorano ruota a ruota, per poi allontanarsi, in una spirale che non ammette la sconfitta. I “montanti” sono figli degli sforzi dei meccanici, di chi rischia la vita a tutto gas per poi magari scoprire che i freni non funzionano. Mangold costruisce un universo in cui la “strada” è l’unica a vincere. Separa i protagonisti (la distanza tra la casa e il parco, tra la quiete e il desiderio), i “buoni” dai “cattivi” (i chilometri tra la pista e l’edificio dei vertici). Pretende rispetto, altrimenti stronca le esistenze. Per Mangold è qualcosa di vivo, sinuoso, pieno di curve. Ed è proprio sul rettilineo finale che la lucidità è tutto, perché il tradimento, non solo della tecnologia, è dietro l’angolo.
 
Mangold conosce i classici, e non ha paura di confrontarsi anche con John Frankenheimer (Grand Prix), specialmente nelle sequenze di gara. Ma fa sua anche la lezione umanista di Ron Howard in Rush. Mette in scena le fragilità, i rimpianti, il costante tentativo di reinventarsi. Quando ancora i sistemi di sicurezza non erano così sviluppati, e i rischi erano alti. Ma ciò che conta non è solo lo sport. Le Mans ’66 si addentra anche nelle dinamiche commerciali, nei giochi di palazzo. Le tute ignifughe proteggono dalle fiamme, non dai “serpenti a sonagli” in giacca e cravatta.
 
Il marketing, l’industria può ammazzare il talento. Enzo Ferrari si toglie il cappello davanti alle gesta del pilota e ingegnere Ken Miles (un ispirato Christian Bale, che duetta con Matt Damon, nei panni di Carrol Shelby), mentre i dirigenti della Ford cercano di schiacciarlo per il suo difficile temperamento. È una metafora anche sul cinema, che con le sue logiche da botteghino troppo spesso sacrifica l’autorialità. E che cos’è Ken Miles se non un regista? La sua macchina da presa è la chiave inglese, il suo film è il veicolo, mentre il capolavoro è un sogno chiamato Daytona, Le Mans. Dove i premi, come a Hollywood, sono consegnati dal sistema e non dall’arte.