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Il protagonista di Jersey Boys: “Clint Eastwood e io alla scoperta dell'essenza italo-americana”

John Lloyd Young rivela la purezza degli anni Sessanta “in grado di fare innamorare i giovani del ventunesimo secolo”

Jersey Boys

19.06.2014 - Autore: Pierpaolo Festa
Luci spente in sala, arriva il logo della Warner Bros. e poi la scritta “Clint Eastwood” sotto la dicitura “regista”. Dopodiché ecco il nome di quattro protagonisti perfettamente sconosciuti sul grande schermo. Questa la grande scommessa del nuovo film del maestro Clint. Due ore e quindici minuti dopo si lascia la sala con il ricordo di quei quattro volti e la voce del loro leader che rimane dentro le nostre orecchie.

John Lloyd Young è il Frankie Valli cinematografico di Jersey Boys. Uno che quel ruolo lo aveva già interpretato a teatro oltre milletrecento volte. “La prima volta che ho visto Clint Eastwood è stata una sera in occasione dello show: lui era in platea. Era venuto a vedere Jersey Boys a Broadway. Credo che quello sia stato il mio provino ufficiale, perché la volta successiva ci siamo incontrati direttamente sul set. Lui è uno di poche parole, quindi ci sono voluti un paio di giorni per abituarmi. Oggi ti dico questo: se non avesse sette figli a cui badare, lui e io saremmo amici per la pelle”.



Sconosciuto sullo schermo, celebre sul palcoscenico: il nome John Lloyd Young potrà dire poco allo spettatore cinematografico, ma è pieno di rispetto e fama nel mondo di Broadway: “Ricordo ancora la mia prima sera a teatro nei panni di Frankie Valli. Era il 2006 ed ero pieno di paura perché stavo per debuttare a Broadway: interpretavo un personaggio realmente esistito che era seduto in platea insieme all'intera critica newyorchese pronta a sentenziare sulla mia performance! Sono stato molto fortunato e allo stesso tempo ho fatto in modo che la paura non prendesse il controllo su di me”.

Mi hai appena parlato degli inizi, vorrei invece chiederti della fine di questa nuova esperienza. Cosa hai fatto quando hai ultimato l'avventura di Frankie Valli sul set di Clint Eastwood?
Ho potuto prendermi il tempo di andare in vacanza e tornare nel vostro Paese. Ho scelto di visitare Roma per festeggiare la fine del 2013. Ero stato in Italia una volta e volevo tornare a vederla. È anche il mio Paese: mia madre ha origini siciliane, è nata vicino Catania.

Jersey Boys è un'esplorazione di cosa vuol dire essere italo-americano negli anni Sessanta. Nel film vediamo che i tuoi genitori cinematografici ti parlano in italiano. È stato così anche per te?
Ricordo mio nonno, il padre di mia madre, era l'unico che non aveva imparato l'italiano. I suoi genitori gli parlavano in siciliano e lui rispondeva in inglese. Si chiamava di cognome Monteleone: quando sono andato in Sicilia ho guardato nell'elenco del telefono per cercarlo... ho visto che c'erano almeno tre pagine con quel cognome!



Allora mettiamola così, credi che le tue origini italiane ti abbiano aiutato a capire meglio il ruolo di Frankie Valli?
Senza dubbio. Frankie ha origini molto simili alle mie: mio nonno veniva da Brooklyn, il suo da Newark, che sta dall'altra parte del fiume Hudson. Partendo dalla mia esperienza personale in famiglia ho potuto capire veramente anche il background di Frankie e di tutta quella comunità italo-americana a New York.

Sono curioso, nel corso di questi otto anni in cui hai interpretato Valli, cosa hai scoperto di noi italiani?
Frankie Valli ha una qualità tipica di quello spaccato italo-americano: è uno che lavora sodo e non molla mai. Credo che questa tenacia sia l'essenza italiana: quella di rimanere attaccato agli obiettivi a qualunque costo. La cosa bella è che lo si fa anche con l'aiuto dei familiari e dei propri cari, contando sempre su di loro.

Nonostante le tue 1300 performance nei panni di Frankie, mi chiedo se lavorare con Eastwood abbia comportato un approccio nuovo al ruolo...
Sul palcoscenico mi facevo domande sulla vita familiare di Frankie. Cercavo di saperne di più sul rapporto che aveva con moglie e figlia. Il film mi ha permesso di interpretare quelle scene che non erano nello show: in altre parole sono andato più in profondità alla scoperta del personaggio e ho fatto veramente tante cose nuove.

Eastwood non è certo un italo-americano, lui è nato in California dalla parte opposta rispetto al mondo raccontato in Jersey Boys...
Eppure conosceva quel mondo benissimo! Aveva già raccontato la sensibilità working class della East Coast in Mystic River. Quindi riusciva a capire questi personaggi. Ricordo ancora quel giorno sul set quando io e Renée Marino, l'attrice che interpreta il ruolo di mia moglie, dovevamo litigare. Clint ci ha lasciato improvvisare tenendo la macchina da presa su di noi per venti minuti. Eravamo così dentro quelle dinamiche che abbiamo iniziato a litigare veramente. A un certo punto ho intravisto Clint con la faccia rossa che non riusciva più a trattenere le risate. Riconosceva perfettamente alcuni tratti di queste dinamiche matrimoniali. Sono state quelle le scene più sorprendenti da girare.



È interessante vedere come il cinema torni spesso agli anni Sessanta. Jersey Boys allo stesso tempo è un film molto giovane. Come ti spieghi il successo di questa storia anche nel mondo dei giovani del ventunesimo secolo?
L'ho visto con i miei occhi: i giovani che vengono a vedere Jersey Boys e si innamorano di quell'epoca allo stesso modo dei nostri genitori o dei nostri nonni. È stato un periodo in cui la musica poteva rivolgersi a tutti: si parlava di amore, di lasciarsi e tornare insieme. Erano testi molto diretti su emozioni con cui tutti possiamo confrontarci. Ecco la purezza dei Sixties, ecco perché quelle canzoni oggi non sono state dimenticate.

E poi naturalmente c'è il tema “bromance”, quello dell'amicizia tra uomini: del loro onore italo-americano sigillato con una stretta di mano...
Proprio così, era un qualcosa a cui Clint teneva molto. Non c'è niente di più bello che vedere maschi legati, pronti a fidarsi l'uno dell'altro. È un tema molto sfruttato dai film degli anni Sessanta e Settanta: ovviamente quando penso alla natura italo-americana di questa dinamica, mi viene in mente Il padrino. Il film è totalmente ambientato in questa atmosfera.

Sul palco come sul set sei diventato il leader di una band. Cosa ti sei portato via degli anni Sessanta anche dopo questa esperienza?
Be' forse non mi vesto in quel modo, ma aver ottenuto la fama grazie a questo ruolo ha creato un effetto particolare: ogni volta che partecipo anche a eventi privati, tutti mi chiedono di cantare canzoni di quel periodo. Ho pubblicato un album su iTunes intitolato “My Turn”. Canto la musica degli anni Sessanta, non quella di Frankie Valli, piuttosto canzoni con cui sono cresciuto. Mio nonno mi faceva ascoltare Frank Sinatra, ad esempio. Le sue canzoni riecheggiano lo spirito e la visione dei Sixties. A me viene naturale identificarmi con quello spirito: ormai conosco perfettamente quel periodo.



Alla fine di ogni intervista la domanda tradizionale è: qual era il poster che avevi in camera da ragazzino?
Il ritorno dello Jedi. Ero un grande fan di Star Wars da bambino!

Jersey Boys, attualmente nei cinema, è distribuito dalla Warner Bros.