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Gianni Amelio: "Ho rubato La dolce vita"

I ricordi sul set e le strategie vincenti del suo Torino Film Festival. L'intervista esclusiva

Gianni Amelio

05.12.2012 - Autore: Pierpaolo Festa, nostro inviato al Torino Film Festival
A Torino lo si incontra facilmente per strada tra una proiezione e l'altra o per caso la sera rincasando dopo una lunga giornata dedicata al cinema. Ma avere la possibilità di intervistarlo ufficialmente è un'altra storia: sali al terzo piano dell'ufficio stampa del Festival all'interno di un palazzo pieno di porte e finisci per tornare giù scortato in un altro ufficio, davanti a un'altra porta che però si apre. A quel punto Gianni Amelio ti mette a tuo agio con quell'aria da professore scolastico, uno di quelli più simpatici. Lui, laureato in filosofia, ama tanto spiegare per bene una cosa, così bene da evitare qualsiasi interferenza di comunicazione.

Gianno Amelio intervista Torino Film Festival la dolce vita

Eccolo dunque a una manciata di giorni dalla fine del suo ultimo Torino Film Festival come direttore. “Direi che è stata una scommessa vinta – dichiara - Quest'anno siamo addirittura al 12.6 percento di aumento del pubblico. Ogni anno siamo andati in crescendo: da quando sono arrivato direi che il Festival è cresciuto di una media del 35 o 40 percento”.

Amelio cosa ha aggiunto la sua guida a questo Festival? Che cosa, invece, ha tolto rispetto alle edizioni precedenti?
Io ho aggiunto. Volevo che il Festival andasse oltre quell'etichetta con cui era stato concepito storicamente: e cioè un evento per iniziati, per cinefili di strettissima osservanza. Il rischio era creare un ghetto difficile da aprire o spalancare. Ci ho provato aprendo le porte di Torino ai film di genere, che prima erano totalmente banditi. Con me è entrato l'horror ad esempio, un genere estremamente popolare e molto gradito dai giovani. Penso che abbia veicolato il pubblico anche verso le opere più difficili. Questo significa che il Concorso del Festival ha anche beneficiato delle sezioni collaterali.

Si tratta in effetti di una bella scommessa. Cosa le piace dell'horror?
Credo che sia il genere per eccellenza che va visto in sala. Questa è la cosa che me lo rende simpatico. Il cinema si è spostato verso il salotto di casa nostra, ma non credo che ci sia la stessa emozione né lo stesso grado di goduria, soprattutto quando si vede un horror a casa con amici. E' meglio trovarsi in sala con gente sconosciuta che magari al momento opportuno si mette a urlare. Quella è l'alchimia che poi lega tutti gli spettatori: una cosa bellissima che pian piano si va perdendo.

Gianno Amelio intervista Torino Film Festival la dolce vita

Quindi il successo di un evento del genere si ottiene andando incontro ai bisogni del pubblico. Quanto questo può invece ostacolare la visione di un regista?

Non penso al pubblico come idea astratta. Per me esiste lo spettatore che è un'altra cosa, e cioè qualcuno che immagino più intelligente di me e disponibile alle cose che dico. Sarà una cosa ideale, uno spettatore che non esiste, ma a me serve per poter fare qualcosa di non effimero. Qualche volta mi segue, qualche volta mi segue di meno. Non forzo mai la mano.

Sul set è uno che accoglie le nuove tecnologie?
Assolutamente sì. Il prossimo film, infatti, lo farò in digitale. Ho già scelto la macchina da presa che utilizzerò: un piccolo miracolo. E' mio figlio a tenermi aggiornato sugli ultimi modelli, dal momento che lui stesso è operatore di macchina.

Il Festival di Torino ha appena compiuto trenta anni così come Colpire al cuore, il suo primo lungometraggio per il cinema. Pensa mai a quel film? Le è capitato di rivederlo di recente?

Sembra una fase fatta, ma non amo rivedere le cose. E' una sensazione sgradevole: ti rendi conto che avresti potuto fare di meglio. L'ultima volta lo ho rivisto sei anni fa, quando ho fatto il commento al DVD. Devo dire che ha due o tre cose davvero notevoli e una prima parte straordinaria.

Gianno Amelio intervista Torino Film Festival la dolce vita

Qualche anno dopo, nel 1989, ha diretto Porte aperte. Qual è il ricordo che conserva di Gian Maria Volonté su quel set?

Quello di aver lavorato con un genio disperato. Una delle persone meno felici del mondo e meno felici di se stesso che io abbia mai conosciuto. La cosa stupisce e ti fa meravigliare. Ti fa anche capire tanto sulla psiche umana. Uno dice: “Come mai un genio, un attore di quel calibro poi si sente così fragile di fronte all'esistenza?” Era proprio così: Gian Maria era un attore di qualità assolute, ma anche un uomo che aveva grandi paure, angosce, ansie. Non godeva di un momento di pace. Ricordo quella lavorazione come un suo inferno e di conseguenza anche un mio inferno. Non era mai rilassato, né contento di quello che faceva. Sempre un po' sulle sue, sempre un po' diffidente di se stesso. Era insoddisfatto. Ha sofferto molto, non solo in quel periodo. Ho conosciuto tanti registi che lo hanno diretto, Petri, Damiani, Rosi: siamo tutti d'accordo su questa analisi di Gian Maria.

Vi siete frequentati dopo il film?
Tantissime volte. Ci incontravamo a Velletri a casa sua, dove lui cucinava per noi. Alla fine era felice di aver fatto il film con me. Era talmente contento di sé che per un po' ha preso un lungo respiro ed è diventato una persona normale.

Gianni Amelio è una persona ansiosa invece sul set?

Ho delle angosce che riesco a nascondere bene. La notte non dormo, oppure se dormo mi sveglio con l'angoscia di non sapere che cosa fare. Miracolosamente appena entro in macchina verso il set, tutto va meglio.

Gianno Amelio intervista Torino Film Festival la dolce vita

Chiudiamo con la nostra domanda di battaglia: qual era il poster che aveva in camera da ragazzino?
Da ragazzino non avevo poster, perché ero troppo povero per averli. Fino a dodici anni non ho potuto vedere un manifesto. Io sono calabrese, proprio come Mimmo Rotella il famoso artista che ha inventato i manifesti strappati. So da dove è nata questa sua ispirazione: passavamo tutti e due in un certo vicolo di Catanzaro dove si vedevano gli operai che strappavano i manifesti, incollati uno sopra l'altro. In una cornice potevi attaccare un determinato numero di manifesti, quando superavi quella cifra allora dovevano essere strappati. A me piangeva il cuore: avrei voluto possederli tutti. Ho rubato la mia prima locandina da un cinema all'età di quindici anni. La custodisco ancora, perché é preziosa: quella de La dolce vita, presa dal cinema comunale mentre il tizio che stava di guardia alla sala era fuori a prendere un caffè.


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