
“Non ci stancheremo mai di ripeterlo: Shakespeare va riscoperto sempre – interviene all'incontro con la stampa Paolo Taviani – Ci siamo permessi di trattarlo un po’ male: lo abbiamo preso, smembrato, decostruito, ricostruito. Ma forse Shakespeare sarebbe stato contento di vedere rappresentato in un carcere il suo 'Giulio Cesare'”. Ma “Cesare deve morire” è anche “un racconto sulla potenza della scoperta dell’arte. 'Da quando ho scoperto l’arte, questa cella è diventata una prigione' dice uno dei protagonisti alla fine”.

La scelta di ambientare il film nel carcere di Rebibbia è nata un po' per caso: “Abbiamo incontrato un’amica che ci ha detto: in Italia si piange poco a teatro, ma c'è un teatro in cui si piange”, spiega Vittorio Taviani. “La cosa che ci ha molto commosso e stupito durante la lavorazione – prosegue Paolo – è che questi detenuti attori recitavano benissimo, ma in un modo diverso da quello che è il recitare convenzionale. Nel nostro Bruto c’era un dolore vero che gli altri attori non hanno”. Il fulcro del film è dunque l'incontro tra la realtà dura del carcere e il mondo del teatro, apparentemente così distanti: “Ci siamo detti che se fossimo riusciti a fare incontrare tra loro queste due realtà così drammatiche, allora avremmo avuto il nostro film”.
“Cesare deve morire”, in uscita il 2 marzo, è distribuito da Sacher.