Cesare deve morire

Cesare deve morire - Locandina

Docu-fiction dei fratelli Taviani girata nella sezione di alta sicurezza del carcere di Rebibbia di Roma che vede come attori i suoi detenuti, dei quali alcuni segnati dalla "fine pena mai".

VALUTAZIONE FILM.IT
TITOLO ORIGINALE
Cesare deve morire
GENERE
NAZIONE
Italia
REGIA
CAST
SITO UFFICIALE
DISTRIBUZIONE
Sacher
DURATA
76 min.
USCITA CINEMA
02/03/2012
ANNO DI DISTRIBUZIONE
2012

Qualche anno fa ci aveva pensato Al Pacino a esplorare il teatro elisabettiano e i suoi risvolti contemporanei in “Riccardo III”, uno dei film più interessanti ispirati agli scritti del Bardo. Adesso i fratelli Taviani alzano la posta in gioco e ci buttano dentro anche temi sociali ed “evasioni artistiche”. Assistere alla celebrazione dell'immenso potere di Shakespeare vale sempre una standing ovation. Considerato che qui a trattare il bardo ci sono un gruppo di detenuti di Rebibbia pronti a vivere ed evadere con il cuore dalle loro celle e affidarsi all'arte, allora parliamo di applausi a scena aperta.

I registi filmano le persone e i luoghi veri, filtrando il tutto attraverso un bianco e nero introspettivo e realizzando l'incontro perfetto tra teatro shakespeariano e cinema sociale. Bastano una manciata di scene per immergere lo spettatore nell'atmosfera, facendogli dimenticare l'impronta docu-fiction del progetto. L'inizio è ipnotico: i detenuti alle prese con i provini per ottenere i ruoli nell'adattamento. D'un tratto le mura delle celle, i lunghi corridoi e le zone d'aria del carcere diventano un tutt'uno con le sale del potere dell'Antica Roma. La forza visiva trasuda dallo schermo per settantasei minuti di grande cinema.

I veri colpi di genio di “Cesare deve morire” sono rappresentati dalle sequenze in cui i detenuti si lasciano prendere dai pentametri giambici per scatenarli improvvisamente in forti emozioni fuori dal dramma. Momenti in cui la transizione da recitazione a realismo viene eseguita con la massima naturalezza. Il testo shakespeariano prende vita anche lontano dai riflettori e, a quel punto, le emozioni vengono duplicate. Non manca comunque qualche scivolata: si poteva forse tagliare il finale ridondante e la battuta “da quanto conosco l'arte, questa cella è diventata una prigione”, pronunciata da uno dei protagonisti.

Eppure il bardo arriva più in forma che mai a riprendersi il primato nell'era in cui stanche parodie delle sue storie vengono messe in scena in chiave emo. Il suo linguaggio torna a dominare e primeggiare e il merito è tanto dei Taviani quanto del regista Fabio Cavalli che dirige i detenuti in scena davanti alla macchina da presa dei fratelli campioni a Berlino con l'Orso d'Oro.

di Pierpaolo Festa