
L'incontro con i Taviani a Berlino
I registi filmano le persone e i luoghi veri, filtrando il tutto attraverso un bianco e nero introspettivo e realizzando l’incontro perfetto tra teatro shakespeariano e cinema sociale. Bastano una manciata di scene per immergere lo spettatore nell’atmosfera, facendogli dimenticare l’impronta docu-fiction del progetto. L’inizio è ipnotico: i detenuti alle prese con i provini per ottenere i ruoli nell’adattamento. D’un tratto le mura delle celle, i lunghi corridoi e le zone d’aria del carcere diventano un tutt’uno con le sale del potere dell’Antica Roma. La forza visiva trasuda dallo schermo per settantasei minuti di grande cinema.
I veri colpi di genio di “Cesare deve morire” sono rappresentati dalle sequenze in cui i detenuti si lasciano prendere dai pentametri giambici per scatenarli improvvisamente in forti emozioni fuori dal dramma. Momenti in cui la transizione da recitazione a realismo viene eseguita con la massima naturalezza. Il testo shakespeariano prende vita anche lontano dai riflettori e, a quel punto, le emozioni vengono duplicate. Non manca comunque qualche scivolata: si poteva forse tagliare il finale ridondante e la battuta “da quanto conosco l’arte, questa cella è diventata una prigione”, pronunciata da uno dei protagonisti.

I Taviani vincono il Festival di Berlino
Eppure il bardo arriva più in forma che mai a riprendersi il primato nell’era in cui stanche parodie delle sue storie vengono messe in scena in chiave emo. Il suo linguaggio torna a dominare e primeggiare e il merito è tanto dei Taviani quanto del regista Fabio Cavalli che dirige i detenuti in scena davanti alla macchina da presa dei fratelli campioni a Berlino con l’Orso d’Oro.
"Cesare deve morire", in uscita il 2 marzo, è distribuito da Sacher distribuzione.
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