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Animal Kingdom - la nostra recensione

Un maestoso affresco corale e familiare che illustra con lucidità spiazzante e freddamente calma l'anatomia di un mostro a tante teste: follia criminale, morboso legame familiare, corruzione e sopraffazione in un regno animale che ha sede a Melbourne.

Animal Kingdom - recensione

01.11.2010 - Autore: Ludovica Sanfelice
J. (James Frecheville) è un ragazzino apatico e vuoto che alla morte della madre per overdose, non avendo alternative, si trasferisce in casa della nonna Janine “Smurf” (Jacki Weaver) insieme ai suoi cugini Pope (Ben Mendelsohn), Craig (Sullivan Stapleton) e Darren (Luke Ford) che, con la dolce benedizione materna, delinquono a tutto spiano. Qui J., a cui nessuno ha mai spiegato la differenza tra bene e male, prende quello che passa il convento e respira passivamente i fumi velenosi dell’ambiente criminale. Quello che ha intorno è un autentico regno animale. Pope, il capobanda, è uno psicopatico violento, un predatore efferato, è il maschio dominante;  Craig, il secondogenito, è un trafficante  carismatico e privo di cattiveria, una specie di fiera mansueta; Darren è il cucciolo da proteggere. Su di loro veglia con alterigia la madre Smurf, il vero capobranco, la vestale sociopatica e malvagia degli equilibri di questa schiatta bestiale che, con un artiglio fermo e una tenerezza ripugnante, tiene insieme tutti i cocci.

J. è chiaramente un pesce troppo piccolo per nuotare in questo mare, è l’anello debole della catena, il punto a cui mirare per insinuarsi e sgominare la banda. Quando la tensione tra la famiglia e le forze dell’ordine raggiunge l’apice, è proprio lui che va a pescare Leckie (Guy Pearce), un poliziotto per bene che con gentilezza cerca di spiegare al ragazzino che è necessario stabilire un confine e scegliere come schierarsi. J. può decidere di stare dalla parte giusta e trovare la via d’uscita in un complicato programma di protezione, in cambio della sua testimonianza contro i familiari, oppure può tentare di sopravvivere da solo nella giungla insidiosa che lo circonda.

Dopo nove anni di ricerche e di reportage sulla criminalità organizzata di Melbourne, David Michod si è convinto a scrivere e poi dirigere “Animal Kingdom”, un maestoso affresco corale che illustra con lucidità spiazzante e freddamente calma l’anatomia di un mostro a tante teste. Il suo film potrebbe essere identificato come un gangster movie ma, in un’azione di pulizia, molto del linguaggio che normalmente regola questo genere viene sottratto e poi insinuato sottilmente nelle pieghe di una scrittura asciutta e molto precisa. Senza lesinare sui colpi di scena, la sceneggiatura ha la scioccante capacità di delineare personaggi composti e multiformi senza bisogno di appellarsi a scene madri e a battute fulminanti o memorabili. Proprio questa peculiarità così personale e innovativa si distilla in gocce cattive e disturbanti che hanno un impatto molto più scomodo da smaltire della violenza visibilmente espressa. Tutto il cast inoltre offre una prova veramente meritevole di applausi.

“Animal Kingdom”, si può affermare senza riserve, è un’opera prima sorprendentemente matura che difficilmente verrà dimenticata.

Di sicuro sarà impossibile rimuovere dall’immaginario la figura tragicamente shakespeariana della perversa e disarmante Smurf, interpretata da una grande grande Jacki Weaver.
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