

Crazy Heart

Il film racconta la crisi della vita privata e pubblica del cantante country alcolizzato Bad Blake, che riuscirà a ricostruire la propria carriera grazie al supporto e all'amore di una giornalista, Jean Craddock.

di Ludovica Sanfelice
Per i fan del caro Lebowsky è naturalmente suggestivo assistere all'ingresso di Jeff Bridges
in una sala da bowling. Spinge a chiudere gli occhi per un momento per
smaltire il piacere quasi disgustoso che dà ritrovare il vecchio Drugo. Lo sa Bridges
e lo sa il regista che non si lascia sfuggire l'opportunità di fare
questo piccolo regalo al pubblico prima di cominciare a raccontare la
sua storia. Anzi la storia di Bad Blake, ex stella del
country ridotta ad attraversare pigramente il paese in una sottospecie
disperata di tournè, mentre si strangola di pessimo whisky, collassa
dietro il palco e poi va a letto con grupies brutte e avvizzite in
terribili motel. La musica non basta più per curare le ferite di
quattro matrimoni falliti, un figlio di cui quasi non ricorda il nome,
la solitudine e l'oblio.
La storia però non ha molto altro da offrire. Secondo la meravigliosa logica del sogno americano per tutti c'è una seconda possibilità e quella di Bad Blake
arriva insieme a una bellissima giornalista che lo vuole intervistare e
poi lo vuole amare, ma prima lo vuole disintossicare. Un percorso di
redenzione che abbiamo visto spesso e l'ultima volta solo pochi mesi fa
con Mickey Rourke ("The Wrestler").
Questa però non è una stroncatura. Non a tutti gli effetti almeno, perché la scarsa originalità della trama non dovrebbe scoraggiare la visione di "Crazy Heart"
che, liquidato il problema della difficile gestione di una
sceneggiatura complessa e ricca di sorprese o sottotesti, lascia la
mano libera per disegnare altre cose. Cose belle come certi personaggi,
l'interpretazione e la musica. Jeff Bridges consegna l'anima e un corpo appesantito e trascurato a questo Bad Blake
cucito su di lui che nelle malinconiche performance ci mette anche la
voce sporca di fumo e di alcol e tiene sulle spalle, nei solchi della
faccia e nelle dita l'intera pellicola scatenando una naturale
simpatia. La mimesi dell'attore è completa e rende difficile distinguerlo dal suo personaggio.
Se questa sintesi può frenare un po' l'esplorazione, Bridges compensa
il rischio di non recitare assecondando personalmente le emozioni senza
fare economia e ciò rende in ogni istante più concreta la possibilità
che arrivi finalmente il riconoscimento dell'Academy.
Maggie Gyllenhaal (candidata all'Oscar come non protagonista) è forse addirittura brava più di lui anche
perché risolleva con umanità, femminilità e carisma un personaggio
(quello della madre single che ha collezionato fidanzati falliti e
dannosi ma vorrebbe tanto ricredersi) un po' lagnoso, e vagamente
disfattista. Piccole ma preziose anche le incursioni di Colin Farrell e Robert Duvall, soprattutto quelle di quest'ultimo.
La colonna sonora infine, creata appositamente da T-Bone Burnett insieme al cantautore texano recentemente scomparso, Stephen Bruton, conquista con le sue ballate intrise di cultura folk.
Il regista Scott Cooper, al suo primo lungometraggio, insomma non tradisce intenti da grande autore e getta un po' via l'occasione di girare un vero affresco country (la musica c'era eccome) per rassegnarsi a certi clichè di un road movie che sulle highways costruisce un percorso dritto di redenzione.
Un modo per sottovalutarsi visto che nella sua semplice concretezza
dimostra anche di saper gestire molto bene sentimenti e attori.