Festiva del Cinema di Venezia 2015
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Shia LaBeouf al Lido: “Man Down è stata la mia terapia per guarire”

L’attore presenta il nuovo film di Dito Montiel, con cui torna a lavorare a nove anni da Guida per riconoscere i tuoi santi

Shia LaBeouf

06.09.2015 - Autore: Marco Triolo (Nexta), da Venezia
Shia LaBeouf torna a lavorare con il regista Dito Montiel a quasi dieci anni da Guida per riconoscere i tuoi santi, con un progetto davvero singolare: Man Down, presentato nella sezione Orizzonti alla Mostra di Venezia, intende raccontare la sindrome da stress post-traumatico che vivono i soldati di ritorno dal fronte con un linguaggio visivo che tira in ballo la fantascienza post-apocalittica, “un piccolo film che finge di essere grosso”, come spiega il regista in conferenza.



Shia appare di buon umore, risponde a tutte le domande e sorride spesso a Montiel, di cui è grande amico. Siamo lontani anni luce dal periodo buio dell’attore, che ebbe il suo apice nella sua scioccante apparizione alla Berlinale 2014. “Dito è venuto a casa mia in un momento molto difficile per me e mi ha offerto il film non come un lavoro, ma come terapia per guarire”.

LaBeouf è noto per essere attore di metodo, e sul set restava nel personaggio anche tra un ciak e l’altro: “Quello che vedete è tutto vero, non ci sono trucchi magici. Il mio rapporto con Charlie Shotwell [suo figlio nel film] è reale, ed ero geloso quando vedevo Kate Mara e Jai Courtney [sua moglie e il suo migliore amico nel film] parlare insieme. Mi avvicinavo e chiedevo loro di smettere”. Perché Man Down “non è un film di guerra”, e questo ci tiene a sottolinearlo: “È più dalle parti de Il cacciatore e Kramer contro Kramer”.



Il film lo vede accanto a Gary Oldman in una lunga sessione di analisi che è stata girata “per il 60%” in un unico ciak: “Gary per me è il più grande attore vivente. Abbiamo lavorato assieme in Lawless ma avevamo una sola scena. Anche qui, però è una scena di 27 pagine! Ho chiesto a Dito di girarla in un solo ciak, ma non l’abbiamo detto a Gary. Lui pensava di fare solo le prime quattro pagine, ma poi io mi sono lanciato sulla quinta e lui mi ha gettato un’occhiataccia…”.

Di Montiel dice: “Abbiamo un bel metodo di lavoro e siamo molto onesti l’uno con l’altro, lui sa come lavoro e quindi che pulsanti premere. Questo film è la cosa più difficile a cui abbia mai lavorato, perché richiedeva che fossi totalmente vulnerabile. Non potevo che girarlo con un amico”. E aggiunge: “C’è stato un periodo della mia vita in cui mi prefiggevo di lavorare con ‘i dieci migliori registi’, ma ora mi interessa più che altro fare nuove amicizie e lavorare con amici. Se lavori con un amico non hai paura di sbagliare, perché sai che dall’altra parte ci sarà lui a reggerti”.

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