Biennale Venezia 2014
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Delude Tales, il film iraniano in concorso a Venezia

La regista Rakhshan Bani-Etemad racconta le ingiustizie della società iraniana moderna

Ghesseha

28.08.2014 - Autore: Marco Triolo, da Venezia
Rakhshan Bani-Etemad è una donna regista in una società terribilmente maschilista e al suo attivo ha una carriera quasi trentennale. Va dunque molto rispettata per la sua volontà di continuare a lavorare in una società che discrimina le donne, ma è difficile appoggiare anche il suo ultimo lavoro.

Ghesseha (Tales) è un film a episodi composto di una serie di cortometraggi con protagonisti vari personaggi alle prese con i problemi della vita quotidiana in Iran. Non solo donne ma anche uomini, ritratti sia nella vita privata che nel lavoro. Un tassista, un medico, una madre di famiglia, una donna sfigurata dal marito violento e un regista che sta tentando di girare un documentario sul suo Paese sono solo alcune delle figure di cui la regista racconta piccole storie di rivalsa e sottomissione. Lo scopo, nobile, è quello di parlare in maniera esplicita dei problemi del Paese, una società in cui le donne non hanno diritti e gli uomini sono spesso dei repressi gelosi fino alla paranoia. Tutti sono ugualmente – almeno in questo – frustrati da uno stato che non funziona e nega anche i più basilari diritti ai lavoratori e alle persone in difficoltà, soffocato da una burocrazia impazzita e corrotta.

Di carne al fuoco ce n’è parecchia e fino a un certo punto Tales funziona proprio per questa sua natura nomade, questo sguardo a volo d’uccello che plana di tanto in tanto e segue schegge di storie senza un filo preciso. Peccato che dopo un po’ subentri una certa noia: Bani-Etemad non è in grado di infondere un crescendo drammatico al film, che a un certo punto diventa una sorta di soap opera da pomeriggio di Rai 3 con un banale e didascalico messaggio da pubblicità progresso e una tendenza a un certo fastidioso qualunquismo. E anche visivamente il film non si eleva mai da un look tremendamente televisivo, con una fotografia digitale piatta e set eccessivamente illuminati.

Forse una durata da mediometraggio (già così il film dura meno di un’ora e mezza) avrebbe giovato, o forse sarebbe bastato un migliore lavoro di scrittura. Peccato davvero.

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