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Recensione: Foxtrot, la follia della guerra dal regista del Leone d'Oro Lebanon

Samuel Maoz torna a Venezia per raccontare ancora l'insensatezza della guerra in un film a tre atti che convince solo in parte

Foxtrot

02.09.2017 - Autore: Marco Triolo (Nexta)
Che cosa resta dopo che la guerra ci ha strappato le persone care? Solo ricordi, immagini, lacrime e pazzia. Samuel Maoz torna a Venezia dopo aver vinto nel 2009 il Leone d'Oro con Lebanon. Foxtrot, il suo primo lungometraggio in otto anni, torna a parlare degli stessi temi, l'insensatezza della guerra, ma lo fa con uno stile decisamente più surreale e aperto, rispetto alla claustrofobica parabola che incantò la giuria di Venezia 66.
 
Foxtrot è un film diviso in tre atti distinti. Nella prima parte, una famiglia di Tel Aviv viene informata della morte del figlio in combattimento. Dopo la tragedia arriva la beffa: in realtà si è trattato di un caso di omonimia e il ragazzo, Jonathan, è vivo e vegeto. Nel secondo atto incontriamo Jonathan in un avamposto isolato, dove insieme a tre commilitoni esegue compiti di routine e combatte la noia, dormendo in un container che pian piano affonda nel fango. Il terzo atto... non lo sveliamo, perché contiene una sorpresa. Ma diciamo che torna a parlare di elaborazione del lutto.
 
I primi due atti hanno il loro fascino. Specialmente il secondo, perché il comparto visivo è costruito con attenzione. La fotografia, i colori, gli elementi del set: tutto è gestito con enorme maestria e Maoz conferma di avere grande occhio. Si sorride, a volte si ride, grazie a un'ironia e uno humour che spezzano la cupezza dei temi trattati. Il problema è che le metafore messe in campo da Maoz (regista e sceneggiatore) sono piuttosto banali. Il tedio della guerra, la mancanza di senso e scopo, la sua ripetitività e l'anonimia dei “nemici”, sono cose che abbiamo già visto e a cui Maoz stenta ad aggiungere qualcosa di nuovo. Nondimeno, fino al termine del secondo atto Foxtrot funziona, pur nel contrasto tra le due parti, o forse proprio grazie ad esso.
 
È il terzo atto, che sembra tornare indietro, che gira su se stesso a vuoto ed è didascalico e “teatrale” nel modo peggiore, a stonare. Si esce dalla sala con l'impressione che, se Maoz avesse messo a fuoco meglio ciò che intendeva raccontare invece di compiacersi di se stesso e del suo controllo formale della messa in scena, forse avremmo assistito a un lavoro all'altezza di Lebanon. Un'impressione che non sarebbe stata la stessa se il terzo atto non fosse esistito.