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Primo amore

Matteo Garrone, che aveva colpito pubblico e critica con il bellissimo "L'imbalsamatore", torna con un film sulla malattia del sentimento più forte, l'amore. In concorso al Festival di Berlino e da venerdì 13 febbraio nelle sale.

Primo amore

12.04.2007 - Autore: Terry Marocco
di Matteo Garrone   Due bravi giovani, lui e lei, perduti nelle brume vicentine. S'incontrano attraverso un annuncio e lentamente scivolano nei ruoli di carnefice e vittima in una storia antica, l\'amore. È lì la malattia, nei sentimenti. Anche in questo "Primo Amore" che secondo Matteo Garrone (che aveva già espresso il concetto nel magnifico "L'Imbalsamatore") porta dentro di sé la violenza inevitabile di un rapporto di potere. Un gioco di sottomissione che il regista esplora per capire fino a che punto si può arrivare. Un Vitaliano Trevisan (Vittorio, rasato come uno skin e con lo sguardo del contadino), protagonista e co-sceneggiatore. Così bravo da far dubitare, a tratti, che stia davvero recitando la parte di un piccolo imprenditore, orafo, del Nord-est. E, alla sua prima esperienza al cinema, una Michela Cescon (Sonia) che non è da meno: comune, non bella, eppure luminosa. Spesso nuda, ma estranea a qualsiasi richiamo sessuale. Ingenua fino alla tenerezza, perfetta per il ruolo di agnello sacrificale. E un po\' grassoccia. Non per tutti, ma per Vittorio sì. Lui ama le anoressiche e riuscirà a portarla, con soave indifferenza, dai 57 chili iniziali verso i sentieri dei 40. Un ossesso che mangia tagliatelle davanti alla vittima allo stremo, che tratta un biscottino rubato alla sua attenzione come un tradimento sessuale, che finisce per imprigionare il suo primo amore in una vera torre volendola trasformare nel corpo «per adeguarlo alla testa», cioè alla sua povera estetica post-moderna, di periferia, che vuole il magro ad ogni costo come impone il gusto del giorno e, scopertamente, tradisce la sua cultura agricola dove era il grasso ad essere bello. La tradisce e se ne vergogna, estrema infamia di una generazione vuota come una lattina di Coca dopo l'uso e, tuttavia, struggente, tenera, patetica. Vera. Un contesto di sogno-incubo, con raffinatezze cinematografiche sconosciute al nuovo cinema italiano, e una musica (continua il sodalizio con la Banda Osiris) che, da sola, vale la visione. Un altro grande film di questo giovane regista che stupisce e colpisce durissimo, nelle pieghe più recondite e incoffessabili dei sentimenti, con realismo magico e straordinario. La storia si ispira ad una vicenda di cronaca, come già nell'opera precedente, raccontata da un libro-confessione ("Il Cacciatore di Anoressiche" di Carlo Mariolini) anche se, come si usa dire, è veramente «liberamente tratto» (persino il finale è reinventato). Una storia della provincia del Nord che segue quella della provincia del Sud, e del suo Imbalsamatore. Ma che non diverge troppo e, con ciò, dà conto anche dell'uniformità piatta e noiosa delle nostre sopravvissute culture locali. Garrone è funebre ed estetizzante, ma quell'atmosfera cupa che prende alla gola è la stessa che può prendere ognuno di noi in certe stazioni di periferia, in certe serate disperate della provincia, discoteche, ristoranti e amici da sempre solo quelli. Matteo Garrone posa il suo occhio, senza moralismi, sul vuoto di queste vite perdute. Un vuoto strano, pieno di sentimenti.