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Piccoli affari sporchi

Il ritorno di Stephen Frears: un thriller pieno di sfumature con Audrey Tautou nel ruolo di una cameriera turca.

Piccoli affari sporchi

12.04.2007 - Autore: Chloé Barreau
« Siamo quelli che non vedete. Quelli che guidano i vostri taxi, che puliscono le vostre camere e che ve lo prendono in bocca ». Lo dice Okwe (Chiwetel Ejiofor), un clandestino nigeriano a Londra. Uno dei tanti - la mano d'opera anonima che olia la macchina affinché l'ingranaggio della mitica città non si blocchi mai. E' promettente, la tela di fondo dell'ultimo Stephen Frears. Tassista di notte e recezionista in albergo, Okwe condivide a turno l'appartamento con una profuga turca, Senay (Audrey Tautou), cameriera nello stesso albergo. L'equilibrio delicato tra questi due figli della miseria verrà però sconvolto dalla polizia dell'immigrazione, da criminali incalliti, da traffici infami, da pompini forzati, e, tanto per non perdere speranza, dall'amore. Prima ombra: dallo sfondo multiculturale, il doppiaggio ci ha tolto tutto. Tanto per far finta di essere coerenti nell'incoerenza, abbiamo pur diritto a un italiano patinato di accenti caricaturali (africano, turco, cinese, slavo). Ma è troppo facile criticare. E di questo Frears non è certo colpevole. Senay è la Cosette della situazione. Una piccola schiacciata dal sistema che sogna l'America (cosi come Stephen Frears). Senay è una romantica-timida che preferisce fare da tappezzeria e confondersi sullo sfondo, purtroppo proprio come la sua interprete, Audrey Tautou (tanto convincente in una profuga turca quanto Whoopi Goldberg in un'immigrata polacca). E' solo con il personaggio di Sneaky (l'efficace Sergi Lopez), felice di essere una canaglia, che il film trova un minimo d'impatto. Insomma, che cos'è successo? Il traffico di organi è un ottimo carburante narrativo, la storia non manca di acrobazie, questa Londra insolita di alberghi malfamati è da brividi. Abbiamo tutti gli ingredienti per un buon thriller. Ma appena sorge la denuncia sociale (lo sfruttamento indegno dei clandestini), cadiamo in un'empatia forzata e appiccicosa, non lontana dall'impanarsi, in cui tutto diventa fumoso e inverosimile; come se Frears cercasse a tutti costi, con questa multitudine di lame di fondo, a stritolare il suo film dall'interno. Col suo modo di mantenere un clima deleterio e scabroso (un filo carnevalesco) e di affrancarsi da ogni sfumatura, Stephen Frears poteva firmare un'ottimo noir, pieno di buoni e di cattivi. Aggiungere troppi buoni sentimenti ha reso la zuppa indigesta. Finisce che il film si autodistrugge nel tentare il pamphlet sociale. Tra gli smacchi che scandiscono la carriera anglo-americana di Stephen Frears, ecco solo un modesto telefilm in più. "Le strade dell'inferno sono lastricate di buone intenzioni". E Ken Loach è lontano.