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Mandy, tutta la follia di Nicolas Cage in un horror uscito dagli anni '80 – La recensione

Un film a cui non mancano fascino e atmosfera, ma che in fondo è un vuoto esercizio di stile

Mandy

17.09.2018 - Autore: Marco Triolo
Nicolas Cage è diventato un po' una barzelletta in questi ultimi anni. È l'attore matto, quello che strabuzza gli occhi e urla come un ossesso, quello che è sempre sopra le righe e recita spesso per ragioni alimentari (o “fiscali”). Molti sorvolano sul fatto che è un interprete dal grande carisma, che sa reggere da solo un film intero e che, impiegato nella maniera giusta, è ancora una garanzia di intrattenimento.

 
Panos Cosmatos, regista di Mandy (e figlio di quel George Pan Cosmatos sinonimo del cinema reaganiano grazie a Rambo 2 e Cobra), sa bene quello che vuole da Cage nel suo film. Sa che può contare sulla sua abilità di “fare il matto” e “strabuzzare gli occhi”. Ma, a differenza di quei registi che, semplicemente, lasciano campo libero al lato più folle dell'attore, Cosmatos lo dirige. Lo riprende prima come un uomo buono e pacato, per poi farlo esplodere di follia. Una follia voluta, ricercata e fatta filtrare di scena in scena in maniera accorta.
 
Peccato sia anche la cosa migliore di un film per il resto confuso e superficiale. Mandy, opera seconda di Cosmatos, non manca di fascino e ha un'atmosfera che, almeno all'inizio, funziona. Di questo va ringraziata anche la perfetta colonna sonora del compianto Jóhann Jóhannsson, nella quale risuonano le lugubri chitarre di Stephen O'Malley dei Sunn O))). Cage e Andrea Riseborough sono due innamorati che vivono insieme in una casa isolata in mezzo ai boschi. Un'esistenza pacifica che viene violata da un gruppo di hippie impazziti, guidati da un cantautore folk fallito (Linus Roache) e in combutta con dei motociclisti che potrebbero essere dei demoni (ma non si capisce). Dopo l'incidente, la vendetta di Red (Cage) sarà sanguinaria e implacabile.

 
Il problema di Mandy è che Cosmatos è talmente innamorato della propria padronanza formale da caderne vittima. Il risultato è una vetrina del suo stile, indiscutibile, che lascia un po' il tempo che trova. È come se Cosmatos fosse partito da una serie di idee visive, dimenticandosi però di fare un film. Viene in mente un regista affine come Gaspar Noé, un altro che non sa mai mettere la propria bravura a servizio di un'opera che non sia solo uno sfoggio di vanità.
 
Mandy rientra nel filone di opere – da Kung Fury all'ottimo The Void, i cui registi, Jeremy Gillespie e Steven Kostanski, sono qui coinvolti negli effetti speciali – che rimescolano riferimenti visivi, culturali e musicali degli anni '80 risputandoli fuori in un amalgama stilistico definibile come “vintage”, ma che in realtà cita tutto e niente. Una patina che dovrebbe essere solo stile e che, troppo spesso, viene scambiata per sostanza. Come avviene in questo caso.

 
Così i motociclisti infernali sembrano usciti da Hellraiser, le magliette metal e le grafiche vintage si sprecano, la grana dell'immagine vira verso quella delle VHS horror che la generazione cresciuta negli anni '80 consumava avidamente. Cosmatos sa unire tutto ciò con discreto gusto, ma il giochino dopo un po' stanca e al di là di esso non c'è altro.
 
Mandy è un film costruito a tavolino per piacere a un certo tipo di pubblico. Per questo gli manca un cuore pulsante e sincero che, in questo genere di operazioni, è forse l'unica salvezza.

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