NOTIZIE

L'albero dei frutti selvatici, la recensione del nuovo capolavoro di Nuri Bilge Ceylan

Le radici di un popolo intero, le incertezze, le incomprensioni, lo scontro generazionale, la scrittura: un film totale, da non perdere

Ceylan

28.09.2018 - Autore: Gian Luca Pisacane
Un eterno ritorno, il richiamo alle origini da cui non si può sfuggire. La vita è un viaggio che ci riporta sempre alle nostre radici, sembra dirci il regista turco Nuri Bilge Ceylan, un poeta della macchina da presa. In pochi al giorno d’oggi sanno fotografare con tale sincerità la natura umana, le sofferenze interiori che si riflettono sull’esistenza.

I colori dell’anima sono quelli della natura: il rosso per la rabbia, il verde per la speranza e il blu per la serenità, l’equilibrio. Sono le tinte della campagna turca, magnifica nelle sue mille sfumature, immortali da secoli. Passano gli anni, ma il paesaggio non muta, come lo spirito degli uomini. Tutto è silenzio. Anche i sentimenti sono sempre quelli antichi.



Due giovani si rifugiano all’ombra di un albero, ma non possono abbandonarsi alla loro passione. Lei è stata promessa a un altro dai suoi genitori, la legge del cuore non viene rispettata. Il progresso è un miraggio lontano, che forse appartiene solo alle grandi città. Ne L’albero dei frutti selvatici, la Turchia viene descritta come un Paese che soffre, sotto il giogo dei politici e della religione. E i ragazzi si sentono persi, senza futuro.

Il protagonista Sinan vorrebbe rifugiarsi nella scrittura, nei libri. Vorrebbe trasmettere il senso di vuoto che ha dentro, raccontare quello che lo circonda, ma qualcosa lo frena, e la pagina resta bianca o si riempie di parole senza forza. “La realtà è una sola”, urla un romanziere affermato. Il quotidiano è una prigione, non c’è la libertà di pensiero, l’espressione personale non ha respiro.



La gente va avanti per luoghi comuni, per stereotipi. Sinan vorrebbe ribellarsi, ma gli manca il coraggio. Sfoga la sua rabbia sul padre malato di gioco d’azzardo, su una famiglia che tenta inutilmente di aiutarlo. Scontri generazionali, incomprensioni, distacco. Ancora una volta è al centro l’impossibilità di comunicare, del modo di esprimersi, che Ceylan analizza, disseziona e ricompone. I personaggi si parlano tanto, ma non arrivano mai a comprendersi. Cercano in ogni momento di mettersi a nudo, di cambiare qualcosa, ma poi tutto resta immobile.

Le ambizioni di ogni individuo vengono soffocate, e l’unica possibilità è andar via. Sinan sceglie di entrare nell’esercito, di farsi inglobare dal sistema che prima cercava di combattere. La Turchia non è un Paese per irriducibili, bisogna piegarsi per essere accettati. Gli abitanti di Çannakale (paesino situato sulla costa orientale, focalizzato sul turismo) affrontano il presente come se fosse già morto. Il monumento al Cavallo di Troia (dove Sinan si nasconde) e il cimitero della battaglia di Gallipoli sono i simboli più evidenti di un contemporaneo che scorre all’indietro. E l’albero delle pere selvatiche (il titolo del film), piantato nel cortile della scuola: è lo spettatore involontario di un mondo prigioniero.