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La recensione di La strada dei Samouni, dalla Croisette Savona racconta gli orrori di Gaza

Ma il duro film del documentarista palermitano sull'eccidio dell'esercito israeliano avrebbe potuto essere più ficcante e coinvolgente.

14.05.2018 - Autore: Mattia Pasquini, dal Festival di Cannes
In un momento storico come il nostro, torna di drammatica attualità il racconto di Stefano Savona, documentarista e antropologo palermitano già vincitore di David di Donatello e Nastri d'Argento. Una garanzia di qualità, artistica e giornalistica, che non poteva non essere alla base del suo ultimo La strada dei Samouni, intenso e toccante proprio per la forza della realtà che mostra e della veridicità del dramma della comunità sconvolta dall'operazione Piombo Fuso dell'esercito israeliano.

Difficile aver qualcosa da eccepire, da questo punto di vista, visto che fonti sono quelle della commissione di inchiesta dello stesso stato d'israele - "istituita per indagare la catena di responsabilità", come conferma lo stesso regista - e del rapporto Goldstone delle Nazioni Unite. Dal punto di vista storico resta la condanna, e l'orrore, ingiustificabile, come la distruzione dei campi e dal deliberato eccidio di ventinove dei Samouni (in gran parte donne e bambini). Da quello cinematografico, invece, qualche considerazione.



In primis positive, per la potenza della storia e la profonda penetrazione dell'autore nel contesto descritto, ottenuta grazie a una presenza costante sul territorio e a una lunga frequentazione della comunità. Una familiarità che emerge in molte delle testimonianze dirette e nella rappresentazione della locale vita quotidiana, soprattutto nel post strage, e che ci permette di viverne le emozioni quasi senza filtri. Ma senza trascurare le splendide ricostruzioni dell'accaduto affidate alle animazioni di Simone Masi, disegnatore e professionista di grande rilievo internazionale, che con la sua particolarissima tecnica - realista e onirica insieme, fatta di graffi, scavo, ombre e movimento - rende immediatamente e istintivamente comprensibile la ferita inferta.

Ma la tecnica mista messa in scena dal film, e che è costata anni di lavoro (quasi cinque!), finisce per rendere complicato al suo demiurgo la gestione del tutto. Difficile eliminare una singola parte, una frase, un volto, ma è inevitabile pensare che un montaggio più deciso non avrebbe tolto nulla alla passione che trasmette e forse reso il messaggio più diretto e il complesso meno ostico. Non tanto per la sua durezza (che pure.), ma per certa prolissità, per l'indugiare sulle singole scene, chissà se anche per rispetto di uno stile narrativo locale o degli stessi soggetti osservati.



Al di là della prevedibile empatia con il dramma umano, però, a questo punto il film rischia un impasse fatale proprio quando abbandona cronaca e documentazione per analizzare le conseguenze. Sempre con lucidità, ma senza poter abbracciare esaurientemente un panorama tanto ampio, a prescindere dalle istanze di neutralità ed equidistanza. Le divisioni politiche, la strumentalizzazione, l'educazione all'odio, la mitizzazione di martiri e cronache sono quello che continua a unire e separare i due fronti, ma oltre il perpetuarsi di un letale e disumano circolo vizioso resta probabilmente la verità di una pratica giornaliera nella quale ogni cosa è resa complicata dalla mancanza di strumenti e lo sgomento doloroso di fronte alla normalizzazione - per motivi di sopravvivenza - di orrori che non dovrebbero far parte della vita di nessuno.


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