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La fabbrica di cioccolato

Dietro la solita festa per gli occhi rappresentata da tutto il suo cinema, Tim Burton ha nascosto un cuore buio, inquieto e doloroso: quello cioè di Willy Wonka, impersonato dal suo alfiere Johnny Depp

La fabbrica di cioccolato

12.04.2007 - Autore: Adriano Ercolani
Charlie and the Chocolat Factory, Usa, 2005.
Regia di Tim Burton;
con Johnny Depp, Fredie Highmore, Elena Bonham Carter, Noah Taylor, Christopher Lee




Che il genio creativo di Tim Burton non fosse capace di sfornare soltanto favolette post-moderne lo si era già capito, e da tempo. Già con opere come “Batman – Il ritorno” (Barman Returns, 1992), “Mars Attacks! (id., 1996) o il più recente “Big Fish” (id., 2003) il cineasta ha dato prova di saper costruire un cinema molto più complesso e stratificato di quanto le apparenze lascino intravedere: la presenza fondamentale di sottotesti e di forti tensioni interne alla singola opera hanno portato a lungometraggi di enorme spessore artistico: il tutto, ovviamente, incorniciato da una poetica visiva sempre personalissima e riconoscibile.

Adesso, con questo nuovo “La fabbrica di cioccolato”, Burton dimostra di aver trovato una maniera per rendere ancora più profondo ed incisivo il suo cinema; abbandonata – o meglio, “nascosta” sotto altre spoglie - da qualche tempo la sua vena “dark”, l’autore di “Edward mani di forbice” (Edward Scissorhands, 1990) ha diretto quello che soltanto in apparenza è un enorme carosello di luci e colori, un tripudio di scenografie e costumi destinato a far esultare i bambini di mezzo mondo.

La fabbrica di cioccolato”, ad un occhio più attento, si dimostra però un’opera piena di inquietudine, prima di tutto sotto il punto di vista puramente estetico: l’impianto visivo scelto da Burton, in collaborazione con l’ormai fido direttore della fotografia Phillippe Rousselot, è costantemente immerso in una luce livida ed estraniante; in questo modo l’intero mondo della fabbrica di Willy Wonka assume un aspetto carico di inquietudine, che a tratti si fa addirittura tetro. In più, la sceneggiatura di John August semina per tutto il film una serie di scene che si muovono sempre sul difficile equilibrio tra bizzarria  e follia: i numeri musicali che scandiscono la scomparsa dei cinque bimbi in gara, ad esempio, esemplificano alla perfezione la doppia anima de “La fabbrica di cioccolato”, il suo essere cioè sia puro spettacolo teso al divertimento che cupa riflessione sullo spettacolo stesso e sulla sua fruizione da parte di un pubblico più giovane d inesperto.

Dietro la solita festa per gli occhi rappresentata da tutto il suo cinema, Tim Burton ha dunque nascosto un cuore buio, inquieto e doloroso: quello cioè di Willy Wonka, impersonato con estrema efficacia dal suo alfiere Johnny Depp, giunto ormai a livelli di trasformismo degni dei più grandi istrioni della storia del cinema americano: il suo personaggio non fa per nulla rimpiangere lo straordinario Gene Wilder dell’originale, e questo è sicuramente il miglior complimento che potevamo fargli.

Mirabolante pellicola in cui si cela una bizzarra e sorprendente parabola esistenziale, “La fabbrica di cioccolato” spreca purtroppo parte di quanto costruito in un finale troppo consolatorio e buonista, unica concessione dell’autore alle “leggi del mercato”: per il resto, questo lungometraggio si presenta come uno dei suoi lavori più personali, ammantato in più di alcune tematiche più “adulte” e quindi inquietanti rispetto al suo cinema passato. Da ammirare e godere, soprattutto per quel vago senso di (sano) disagio che il film lascia.




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