NOTIZIE

Il prigioniero coreano, il conflitto tra le due Coree secondo Kim Ki-duk (Recensione)

Il regista sudcoreano racconta la storia di un uomo semplice che si ritrova coinvolto in una guerra più grande di lui

Il prigioniero coreano

10.04.2018 - Autore: Gian Luca Pisacane (Nexta)
La famiglia è il primo valore a cadere sotto i colpi della violenza nel cinema del sudcoreano Kim Ki-duk. Ce lo insegnano le evirazioni selvagge di Moebius, la società ultraveloce che entra tra le placide mura di casa e porta le madri a bussare alla porta dei figli dopo una vita di silenzio (Pietà). È il passato che ritorna, da cui non ci si può sottrarre, in particolare quando pretende il suo tributo di sangue. Serve uno stomaco forte per resistere ai complessi edipici che si trasformano in giochi perversi.

 
Le torture, spesso troppo estetizzanti, si contrappongono a una realtà destrutturata, da cui il regista sembra voler prendere le distanze con i suoi ritmi rarefatti e le impennate surreali (L’isola). Ma ne Il prigioniero coreano qualcosa cambia. I dialoghi scorrono come un fiume in piena e il rosso non è più il colore principale. Il connazionale Park Chan-wook sembra lontano anni luce con i suoi toni pulp (Old Boy) e i mostri su rotaia di Snowpiercer. Qui è la paura a dominare la scena: quella del comunismo di perdere la partita contro il sistema capitalista, o più semplicemente le angosce di un pescatore che teme di non poter più rivedere la sua piccola. 
 
Il destino interferisce nella quotidianità di un uomo comune, lo trascina oltre il confine, oltre la rete che divide la Corea del Nord da quella del Sud. Il thriller si fa politico, in un gioco di spie che non ha niente a che vedere con l’immaginario occidentale dello 007 aitante, con licenza di uccidere. Al centro ci sono i dissidi che devastano una penisola sospesa tra Cina a Giappone, i deliri di onnipotenza di un dittatore con il dito sul pulsante di qualche missile di nuova generazione. A un pescatore di un villaggio poverissimo del Nord non interessano lo scacchiere internazionale e le minacce che volano tra Pyongyang e la Casa Bianca. Nel freddo di una cella incarna una vittima dello Stato, un disgraziato la cui unica colpa è l’ignoranza. Lui non è una Ninotchka alla scoperta dei piaceri di Seul: è un prigioniero di una guerra silenziosa, che si combatte con la propaganda e i telegiornali della sera. 

 
La tensione cresce, il protagonista rischia di crollare dopo massacranti interrogatori e Kim Ki-duk punta il dito contro il suo Paese. L’obiettivo del Sud è far “disertare” chi per sbaglio supera la frontiera, coprendolo d’oro e promettendogli un avvenire radioso, ma ricorre alle torture e all’intimidazione per raggiungere i suoi fini “umanitari”, dietro ai quali si nasconde ben altro. Sembra non esserci differenza tra i metodi del Nord e quelli del Sud: i rossi contro chi ha aperto le porte all’Occidente, la miseria delle periferie contro chi vive negli attici dei grattacieli. A unirli c’è la diffidenza, la brutalità di chi dovrebbe agire in nome della legge. Il prigioniero coreano è un film di opposti, di false libertà. E quando anche gli umili non possono più permettersi il pane, il popolo muore schiacciato dagli oscuri disegni dei potenti.
 
In uscita il 12 aprile, Il prigioniero coreano è distribuito in Italia da Tucker Film.