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Il giustiziere della notte, ecco perché l'originale è ancora il migliore

In sala c'è il remake, ma noi vi diamo un buon motivo per rivedere il classico con Charles Bronson

Il giustiziere della notte

09.03.2018 - Autore: Gian Luca Pisacane (Nexta)
Se sei vivo spara. Era il titolo di un film di Giulio Questi del 1967, ma potrebbe anche essere una battuta de Il giustiziere della notte targato 1974. Un incubo metropolitano, un western moderno ambientato a New York, all’epoca accusato di fascismo e apologia della violenza. L’aggressione iniziale fa venire i brividi ancora oggi. Roba da Arancia meccanica, nelle sale italiane appena due anni prima. Tre uomini, capitanati da un allora sconosciuto Jeff Goldblum, irrompono in una bella casa borghese: uccidono la madre e tentano di stuprare la figlia. La sequenza fu censurata in molti Stati e rappresentava l’inizio di una pentalogia più famigerata che imprescindibile. Cinema della vendetta, individualista, che ha perso ogni fiducia nelle istituzioni. Era l’epoca del post-Watergate, dell’impeachment di Nixon, che sarebbe arrivato il 20 agosto, un mese dopo l’uscita americana del film. 



QUI LA NOSTRA RECENSIONE DE IL GIUSTIZIERE DELLA NOTTE CON BRUCE WILLIS.
 
Il cittadino non credeva più nel sogno a stelle e strisce, doveva farsi giustizia da solo, abbracciando la fascinazione per le armi e il radicamento della violenza negli Stati Uniti. Materia che scottava, in un Paese dove tutti possono nascondere una pistola o un fucile nel cassetto. Il giustiziere della notte era tratto dal romanzo di Brian Garfield "Death Wish", un po’ tagliato con l’accetta ma pieno di attrattive per Hollywood. Ne comprò i diritti Dino De Laurentiis, che fece scrivere la sceneggiatura a Wendell Mayes (lo stesso del Vittorie perdute di Ted Post). Garfield inorridì davanti al copione e costrinse gli autori a cambiare il nome del protagonista da Paul Benjamin a Paul Kersey, e la sua professione da contabile ad architetto. Ma era solo l’inizio di una produzione travagliata. 
 
Per la regia fu scelto Michael Winner, cineasta inglese, reazionario nell’anima, che avrebbe poi anche appoggiato la Thatcher. Dietro la macchina da presa non andava tanto per il sottile, per quello che l’autocensura gli permetteva andava giù duro con sesso ed emoglobina. Il suo Io sono la legge del 1971 con Burt Lancaster ne è la versione in salsa cowboy. Per il ruolo del giustiziere avevano prima pensato a Steve McQueen e a Clint Eastwood, per poi arrivare a Charles Bronson, il duro per eccellenza, uno dei Magnifici sette e il prigioniero in grado di scappare, senza farsi riprendere, ne La grande fuga. Fisico di pietra, origine lituana, si era forgiato nelle miniere di carbone prima di partire per la guerra. Era l’attore giusto per interpretare un reduce dalla Guerra di Corea e obiettore di coscienza, come un certo Desmond Doss raccontato da Mel Gibson nel recente La battaglia di Hacksaw Ridge

 
L’epopea del “vendicatore di New York” durerà per cinque film, in un’escalation di sangue e risvolti sempre più efferati da rendere quasi innocua la sua prima apparizione. Rimangono impressi per grossolana volgarità il quadruplo stupro del secondo capitolo o il bazooka del terzo, quando il personaggio del giustiziere verrà strumentalizzato anche da chi porta il distintivo. In Italia, alimenterà l’immaginario dei poliziotteschi anni Settanta, con titoli come Il cittadino si ribella o Il giustiziere sfida la città, per la gioia di un certo Tarantino.