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I 50 anni de Il mucchio selvaggio, riscopriamo Il capolavoro di Sam Peckinpah

Dal 1969 a oggi, la storia di un film senza tempo. L'ispirazione per intere generazioni

William Holden

14.06.2019 - Autore: Gian Luca Pisacane
L’invasione degli ultracorpi. Sam Peckinpah collaborò alla sceneggiatura, anche se non accreditato. Nel film compare nei panni dell’addetto che legge il contatore del gas in casa Miles. Forse da questa esperienza è nata la scintilla che anima Il mucchio selvaggio. La minaccia di un nemico uguale a noi (gli alieni prendono le nostre sembianze), un mondo sull’orlo dell’apocalisse, la fantascienza che si fa specchio del terrore di un decennio (la “paura rossa”) e del declino di un’epoca (dopo il maccartismo e la “caccia alle streghe”, il cinema non sarebbe stato più lo stesso).

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Qui è il western a cavalcare verso il tramonto, ad assumere una sfumatura crepuscolare. I cowboy sono stanchi, ormai in là con gli anni, come in Sfida nell’Alta Sierra. Resiste l’amicizia virile, ma il mito della frontiera appartiene al passato. I pistoleri sono schiacciati dai rimpianti, si aggrappano ai ricordi. Robert Ryan, vecchio membro della banda, insegue William Holden e compagni perché ha dato la sua parola a un rappresentante delle ferrovie. E poi non vuole tornare in prigione. L’importanza dei valori, della parola data: elementi che appartengono a un’altra generazione, in un West dove il tradimento è legge. Ma qui non ci sarà la mitica battuta: “Ti sei solo distratto un attimo”, che Steve diceva a Gil in Sfida nell’Alta Sierra. Ne Il mucchio selvaggio resiste il “Why not?”, quando ai quattro del mucchio gli si propone di andare verso la morte.



L’ultima battaglia, il massacro finale. Perché dalla polvere del West è sorta una società che si nutre di istinti brutali. Lo capiamo fin dai primi minuti, quando un gruppo di bambini condanna due scorpioni ad atroci sofferenze in mezzo alle formiche rosse. Intanto si scatena la mattanza per una rapina andata storta, anche per i civili non c’è scampo.

La violenza è dilatata, esasperata. Fa sembrare i western di Sergio Leone dei racconti per la buonanotte. Ralenti a cascata, uomini sospesi nell’aria per molti secondi prima di schiantarsi al suolo crivellati di colpi. La stessa cifra stilistica la ritroveremo in Pat Garret e Billy the Kid (questa volta più stemperata), nel campo di battaglia de La croce di ferro, senza dimenticare il ruggito dell’uomo mite ne Il cane di paglia.

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Montaggio travolgente, seminale: 3643 inquadrature che fecero impazzire Lou Lombardo. Il mucchio selvaggio festeggia cinquant’anni (debuttò nei cinema di Los Angeles il 18 giugno 1969), ma era già maturo nel 1969. Oggi è leggenda, ha costruito un immaginario, ha dato vita a riviste e case di produzione. Lo stesso Peckinpah non riuscì più a distaccarsene, omaggiandolo in Killer Elite, richiamando la fuga verso il Messico in Getaway!.

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Il mucchio selvaggio è l’altra faccia de La ballata di Cable Hogue: i toni non sono ironici, c’è spazio solo per il furore. Quello che spinge i quattro antieroi verso la carneficina, sulle note della “Golondrina”. E ripensando a Peckinpah, con la sua bandana e il temperamento sanguigno, non è difficile immaginarlo vicino a loro, mentre si prepara a riscrivere la storia del cinema.