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Holy Motors – La nostra recensione

Una sequela originale al limite del situazionista, da affrontare con onestà intellettuale e un po’ di spirito, certo senza pregiudizi…

holy motors carax

06.06.2013 - Autore: Mattia Pasquini
Non sempre è l’approccio razionale quello migliore per avvicinare un film, o per farsi avvicinare da esso. A volte si incorre nel paradosso di una forte razionalizzazione alla base di veri flussi di coscienza che puntano a una condivisione empatica da parte dello spettatore, che ne possa essere coinvolto a un livello più emotivo e evocativo che intellettuale.

Tutto ciò, banalmente, per dire che la visione di questo Holy Motors – quasi Palma d’Oro al Festival di Cannes 2012 (e se non fosse stato per l’Amour pigliatutto di Haneke… –  di Leos Carax va affrontata senza pregiudizi, con la massima apertura possibile e con una certa attenzione a non forzare connessioni e cercare significati che potrebbero deludere le vostre aspettative.
Il film stesso lo consiglia, sin dalla prima scena: siate pubblico. Siamo pubblico. Osserviamo in ossequioso silenzio il succedersi di rappresentazioni talmente folli e slegate tra loro che anche l’esiguo filo logico ipotizzato inizialmente si rivela rapidamente illusorio.

Presto, ci si rende conto – ve lo consigliamo – che è così che va accettata la narrazione. E la vita. Il senso ultimo di questo delirio continuato sembra essere questo d’altronde: una messa in scena dell’illusorietà e varietà della realtà, delle nostre e altrui esistenze, del nostro sottometterci a regole spesso innaturali, che pretendono di darci coordinate utili a distinguere il turpe dal consentito, il nobile dall’impensabile, l’immorale dall’edificante.

Denis Lavant è lo splendido Fregoli al servizio del regista francese – ora uomo d’affari, ora priapo nascosto, ora foga beluina, ora attore e mimo – ma più che le tante spalle (o vittime) che si susseguono al suo fianco, è l’onnipresente autista della limousine bianca stile Cosmopolis la figura più emblematica. Tra l’angelo custode e il demone complice, è lei a incarnare il definitivo smascheramento e a spiazzare le pretese di identificazione dei più irriducibili in un finale che, nella sua surrealtà, apre delle possibilità di riflessione sul reale rapporto tra autonomia e dipendenza nel mondo che ci creiamo intorno.