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Desierto: una caccia all'uomo mortale nel film di Jonàs Cuarón

Abbiamo visto in anteprima al festival di Sitges il film diretto e prodotto dal figlio di Alfonso Cuarón con Gael García Bernal. Ecco la nostra recensione

Desierto

Desierto

12.10.2016 - Autore: Mattia Pasquini (Nexta)
Dopo l'exploit come sceneggiatore di Gravity - con cui il padre Alfonso Cuarón aprì la 70ª Mostra di Venezia e vinse ben sette Premi Oscar - non avevamo avuto più notizie del suo erede, il figlio Jonás Cuarón. Ma oggi, finalmente, possiamo apprezzarne le doti registiche nel Desierto appena presentato al Festival de Cinema Fantàstic de Sitges, ma che in realtà circola negli Stati Uniti già da qualche tempo (dopo il passaggio a Toronto nel 2015) e che qualcuno ha potuto vedere vittorioso all'ultimo Festival di Taormina.

Non un'opera prima, il ché fa sì che non si debba assistere alla classica volontà di strafare di molti esordienti. Purtroppo, in compenso, manca qualcosa a livello di originalità, probabilmente non nelle intenzioni di partenza, visti gli evidenti obiettivi del film. Ossia, il raccontare una storia esemplare - drammatizzata, certo - é fin troppo comune per un artista messicano. D'altronde, come sempre si consiglia di fare a chi inizia, e come aveva fatto nel suo primo film, Año uña, il trentacinquenne Jonás parla di quello che conosce. E lo fa bene.



E in tempi in cui negli States si dibatte anche della possibilità di alzare un muro davanti agli stati del Sud, come soluzione di un tema caldo anche da noi come quello dell'immigrazione clandestina, non fa male perdersi nella Baja California, vicino La Paz, all'inseguimento di Gael García Bernal, per ricordarci di cosa siamo capaci come razza e di quali siano i motivi (sempre i soliti) che spingono tutti gli esseri umani: egoismo, paura, necessità, dominio, controllo, pietà, amore.

Non senza qualche difetto e forzatura nello script, tutti questi temi si alternano nel lungo thriller-drama costruito per ricreare quel senso di caccia all'uomo crudele e spietato che fece la fortuna di Duel, ma che riecheggiava nel The Reach con Michael Douglas. Per quanto in cima ai pensieri del regista ci siano le vittime - duplici, vista la fuga dalla 'padella' di una vita di pericoli e miserie alla 'brace' che vediamo - 'invisibili', con le loro storie, più o meno tratteggiate, e il loro disperato tentativo di "non scomparire", ad emergere non è tanto l'istinto di sopravvivenza o le fasi della caccia di un Jeffrey Dean Morgan pronto a qualsiasi cosa per difendere il Paese che odia (contraddizione tipica di come certi moti xenofobi spesso nascano dall'esasperazione dei più per condizioni di vita che tutt'altra origine hanno).



A parte un'inattesa crudezza di certe scene - a rendere volutamente ancor più realistico il contesto - e il drammatico utilizzo dell'ultimo bengala a disposizione in una scena anche un po' rozza, forse, ma difficile da digerire, non aspettatevi niente di mai visto. Per quanto l'interessante alternarsi di riprese in soggettiva o di campi lunghissimi e distanti porti lo spettatore a immedesimarsi di volta in volta nelle due parti della contesa e a sentirsi anch'egli ora vittima in fuga ora spettatore apatico. Una doppia visuale che gode dello stesso splendido sfondo delle location desertiche, ricche di una vegetazione irreale e dei magnifici cactus, o delle candide e infinite distese, anticamera di una terra promessa che si rivela un vero inferno, espressione di una natura (anche umana) alla quale poco importa della vita o della morte di chi la percorre.