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Christine - La nostra recensione dal Torino Film Festival

Vintage e drammatico, il film di Antonio Campos solleva il velo che nascondeva una macchia indelebile nella storia dell'informazione moderna e della tv.

22.11.2016 - Autore: Mattia Pasquini (Nexta)
Non capita spesso che in uno stesso momento vengano prodotti e presentati due film dedicati allo stesso identico soggetto, figurarsi in uno stesso festival. Ma il Christine di Antonio Campos (Afterschool) in concorso al Festival di Torino 2016 fa il paio con il Kate Plays Christine nella sezione Festa Mobile, entrambi dedicati - direttamente e non - alla figura di Christine Chubbuck, conduttrice della tv americana che nel 1974 si tolse la vita in diretta. Suicidio che ispirò - come noto - Paddy Chayefsky nello scrivere la sceneggiatura del Quinto Potere di Sydney Lumet.



Il suo resta incontrovertibilmente uno dei gesti più eclatanti e sconvolgenti nella storia dell'informazione televisiva, per la crudezza dell'atto e per il contesto storico in cui avvenne, in un momento nel quale forte era la tentazione per molti di sfilacciare i confini dell'etica per inseguire le sirene del sensazionalismo. E nel quale la condizione femminile, soprattutto sul piano professionale, continuava a esser subordinata a stereotipi e privilegi d'altri tempi.

Campane piuttosto note, la cui eco moderna non mancherà di risuonare forte e per tutti. Ma che oggi, fortunatamente, trova orecchie dotate di strumenti più adatti a gestire certe frustrazioni. Borderline (come suggerisce anche il nome della casa di produzione del film), fragile, ossessionata e delusa, quella della Chubbuck resta sicuramente una figura problematica, difficile, anche da inquadrare completamente, soprattutto in una mera ricostruzione, per quanto fedele. Una figura spigolosa e carica di rabbia, di un malessere che purtroppo allora era più difficile identificare e che evidentemente rompe gli argini proprio nel momento più apparentemente felice, quello della serata con il George Peter Ryan di un ottimo Michael C. Hall (Dexter, Cold in July), carnefice involontario non privo di una sua ingenuità.



È una sorta di martirio quello cui assistiamo, di una vergine destinata al sacrificio, forse - a posteriori - in nome di ideali più grandi di lei e che vediamo ignorati quasi senza volontà di dolo. Un crescendo che supera la possibile depressione e regala un epilogo che aveva già convinto il Sundance (dove la stessa doppietta di film aveva conquistato il pubblico), anche per la splendida interpretazione di Rebecca Hall - attualmente impegnata nelle riprese di Professor Marston & The Wonder Women (biopic sul creatore della Wonder Woman del 1941) - capace di rendere in maniera incredibile la paranoia, il disturbo e l'umoralità della donna.

Un tormento interiore osservato forse più nelle sue manifestazioni esteriori, quelle più emblematiche nel definire le condizioni che la condussero al gesto estremo con un lucidità raggelante. Un ritratto nel quale, senza doverlo caricare di eccessivi significati o simbologie, emerge la forza del personaggio e dell'interpretazione della protagonista. Una tragedia non troppo sviscerata, probabilmente per una forma di rispetto, o per l'inutilità di una ulteriore - romanzata - drammatizzazione. Un sorta di noir a sprazzi ironico, profondamente amaro e a suo modo romantico.
 
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