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Amanda Knox – La nostra recensione del docu-film sul delitto di Perugia

Asciutto, a tratti senza indirizzo preciso, il documentario sceglie consapevolmente di non sostituirsi a nessun grado di giustizia ufficiale

Amanda Knox

Amanda Knox

27.09.2016 - Autore: Alessia Laudati (Nexta)
Una storia terribile quella del delitto di Perugia, avvenuto nel 2007 e al centro di un caso mediatico per il quale dopo un lungo processo è stato condannato in via definitiva un solo uomo, l’ivoriano Rudy Guede. ‘Amanda Knox’ è un documentario di produzione Netflix firmato da Rod Blackhurst and Brian McGinn e realizzato in cinque anni di duro lavoro, che si prende l’onere di tornare sul noto caso internazionale cercando di raccontare l’episodio da un nuovo punto di vista. Il difetto di Amanda Knox però sta proprio qui; e pur essendo un prodotto che ricostruisce in parte e con puntualità gli avvenimenti di quei giorni, esso non riesce a regalarci un diverso sguardo sulle cose.

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Certo, si tratta di un lavoro accurato che raccoglie testimonianze preziose e inedite, però è frutto di un’operazione che seppur ammirevole, ovvero quella di tenersi equidistante da qualsiasi giudizio o ricostruzione processuale, finisce per lasciarci con qualche dubbio sull’indirizzo stilistico dell’intero progetto. E con una sola importante domanda: cosa si voleva davvero raccontare? L’innocenza, la colpevolezza, l’umanità di due presunti colpevoli? In Amanda Knox lo schema del racconto è piuttosto classico. Per esempio viene utilizzato molto materiale di archivio, anche di tipo esplicito, poi sovrapposto alle interviste condotte nei confronti dei protagonisti della vicenda. Ci sono le testimonianze della stessa Knox, di Raffaele Sollecito, e alcune riflessioni più ‘forti’ affidate alla voce del pm Giuliano Mignini pubblico ministero nel processo di primo grado per l'omicidio della studentessa inglese, al quale spetta il compito di pronunciare le frasi più taglienti dell’intero documentario.

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Per il resto manca una teoria forte di fondo, un indirizzo preciso della narrazione che non sia quello di lasciare l’intera vicenda avvolta da un’ambiguità totale, persistente, continua, che ci trova con una sensazione di disagio perenne nel comprendere con quanta poca chiarezza agisca il Male e spesso con quanta poca efficienza l’intero sistema giudiziario sia in grado di riconoscerlo come tale. Quando c’è o quando non c’è. E forse, ripensandoci, il più grande merito del film è proprio questo; lasciare il compito del boia o del salvatore alla giustizia vera e propria, e non a quella rappresentata dalla gogna mediatica, che del resto anche su questa vicenda si è già espressa con chiarezza. 
 
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