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A la vie: un'estate per dimenticare l'Olocausto

A Locarno un film che racconta la più grande tragedia del '900 da un punto di vista inedito

A la vie

11.08.2014 - Autore: Marco Triolo, da Locarno
Raccontare l'Olocausto al cinema è spesso un compito ingrato. Si è parlato talmente tante volte della più grande tragedia del Ventesimo Secolo da rendere a ormai molti dei film su di essa dei compitini ben svolti, ma privi di una lettura o una contestualizzazione che possano dire qualcosa di nuovo al riguardo. L'estetica dei campi di concentramento, dei ghetti, della deportazione, è stata sfruttata così tanto da diventare in una certa misura “normale”, ottenendo così l'effetto opposto che un film di questo tipo si propone. Ci vorrebbero, insomma, meno cloni di Schindler's List e più Vogliamo vivere.
 
Per fortuna ogni tanto arriva un'opera come À la vie di Jean-Jacques Zilbermann. Anziché raccontare la storia che tutti conosciamo, quest'ultimo si concentra su un “momento” nella vita dei sopravvissuti ai campi che è stato trattato pochissimo: quello del ritorno a casa e alla vita di tutti i giorni. Un riassestamento che, per chi ha subito un trauma così grande, può essere davvero duro. Lo è, almeno inizialmente, per Hélène (Julie Depardieu), che ritorna a Parigi da Auschwitz. Nel tentativo di dare un senso al passato, Hélène sposa un altro sopravvissuto ai campi di concentramento, castrato per via di un esperimento sulla fertilità. Lui è l'amore della sua vita, ma il fatto di non poter consumare il rapporto la rende sempre più infelice, finché, quando riesce a mettersi in contatto con una compagna di prigionia che cerca da anni (siamo ormai nel 1962), decide di passare con lei una breve vacanza in una località di mare. Lì incontra a sorpresa anche un'altra amica che credeva morta. Durante quei pochi giorni, le tre donne affronteranno i propri fantasmi e riusciranno in qualche maniera a chiudere i conti con il passato.
 
Come si diceva, la forza del film di Zilbermann sta nel prendere una direzione inedita nel trattare il tema. Via dunque l'immaginario “scolastico” e i colori desaturati e spazio ai colori accesi di un'estate anni Sessanta, il cui ambiente allegro cozza con il dramma interiore delle protagoniste. Ma soprattutto, non c'è spazio per la lacrima facile e il piangersi addosso: qui abbiamo tre donne forti che sono sopravvissute a tutto e vogliono vivere, vogliono tornare a camminare a testa alta. Il film non nega certo che l'Olocausto sia una cosa impossibile da dimenticare, ma postula che forse il migliore modo per lasciarselo alle spalle è riuscire a ridimensionarlo, metterne alla berlina alcuni aspetti. I personaggi raccontano barzellette su Auschwitz, scherzano su persone che hanno incontrato in quei giorni, e non lo fanno per non parlare dei campi, ma proprio per parlarne come se fossero eventi come tanti altri, con un lato triste e uno divertente e ridicolo. Un punto di vista interessante che, insieme a tre protagoniste davvero convincenti, rende il film di Zilbermann un'opera delicata che piacerà non solo a chi è appassionato della storia del '900, ma anche a chi, semplicemente, ama le storie al femminile e i film sulle reunion nostalgiche tra amici.
 
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