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Poesia e guerra

Il film di Benigni è una voce carica di energia e di speranza che vuole opporsi con semplicità disarmante all'inverno della poesia e alle devastazioni della guerra

la tigre e la neve

12.04.2007 - Autore: Luca Muscarà
La tigre e la neve non è solo un film godibilissimo, è soprattutto una voce carica di energia e di speranza che vuole opporsi con semplicità disarmante all’inverno della poesia e alle devastazioni della guerra, un divertente antidepressivo che, in un’epoca dominata a tutte le scale dalla guerra economica, rivendica il diritto alla poesia come possibilità di un’identità diversa, che non sia solo business e lotta di potere, ma uno stare al mondo per trasmettere ad altri il senso del proprio sentire e rafforzare attraverso l’arte un comune sentire umano, che oltrepassi le barriere linguistiche.

E non si tratta tanto di un inno autoreferenziale all’arte fine a se stessa, quell’arte per l’arte solipsisticamente staccata dalla realtà, la poesia implica lavorare sul linguaggio per comunicare con gli altri il proprio inno alla vita e all’amore. E’ infatti l’amore frustrato del poeta Attilio per la sua Vittoria il motore narrativo dell’intero film, che porta il comico ad affrontare la missione impossibile di un salvataggio della sua amata morente nella Bagdad della guerra 2003.

Non è un pretesto narrativo “furbo”, come alcuni hanno voluto insinuare, ma un coraggioso cortocircuito con la realtà, attualizzato sulla stessa dirompente linea catartica di tragedie collettive come La vita è bella (1997). E la principale differenza non è certo nella inesauribile vis comica di Benigni, quanto nel differente vissuto collettivo del pubblico italiano nei confronti della tragedia “storica” della Shoa, rispetto a quella contemporanea degli iracheni. E in questo senso risulta forse ancora più sottilmente corrosivo.

Se per Attilio è l’amore negato per una donna a permettergli di inseguire e infine di compiere il miracolo, il cortocircuito più intenso del film con la realtà arriva pensando alla drammatica vicenda di Enzo Baldoni, il giornalista del Diario rapito nell’estate 2004 mentre operava semi-clandestinamente con un convoglio della Croce Rossa per portare farmaci non alla sua amata ma ai feriti iracheni di Najaf.

Forse, nello stordimento generale di questi anni, buona parte del pubblico non coglierà nemmeno il riferimento, non ricordando più la tragica vicenda di Baldoni, che risale soltanto a poco più di un anno fa. Non sappiamo se Benigni abbia realizzato questo film prima, durante o dopo quella vicenda (forse qualcuno potrebbe chiederglielo). Né cosa pensi di questo film Sandro Baldoni, regista del memorabile Strane storie e fratello di Enzo.

I riferimenti sono comunque troppo numerosi per essere ignorati: il convoglio della Croce Rossa che torna indietro mentre Attilio decide di andare avanti; la consapevolezza dell’urgenza inderogabile di far pervenire i farmaci ai feriti; il rischio di farsi sparare addosso dai militari americani (ed è qui che Benigni rievoca più intensamente le temerarie e reali performance di Enzo Baldoni davanti ai tanks per non farsi sparare addosso), come le difficoltà a farsi comprendere da loro (“A poet ?” – sibila il sergente americano, come se dicesse “un pazzo !”), naturalmente italiano; le parole spese sulle notti stellate di Bagdad.

Se Baldoni credeva nel potere della comunicazione di vincere le barriere ed è stato ucciso, Benigni-Attilio rivisita la tragedia irachena non solo per ricordarci quanto essa sia vicina al nostro quotidiano e insieme rimossa da esso, ma per rivendicare in questo contesto di guerra convenzionale e non, il diritto dell’individuo e della moltitudine alla poesia e la necessità dell’amor fou di fronte a tanta devastante “normalità”.