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La Visione ed il Genio

Il recente tributo che la prossima mostra di Venezia ha deciso di assegnare al genio di David Lynch, ci esorta ad una considerazione quanto mai necessaria su cosa significhi essere un autore "visionario" nel panorama contemporaneo di cinema

David Lynch

12.04.2007 - Autore: Adriano Ercolani
 

Il recente tributo che la prossima mostra di Venezia ha deciso di assegnare al genio di David Lynch -  di cui probabilmente vedremo sul Lido il prossimo, attesissimo INLAND EMPIRE (id., 2006) – ci esorta ad una considerazione quanto mai necessaria su cosa significhi essere un autore “visionario” nel panorama contemporaneo di cinema.

  All’interno di meccanismi industriali e di stilemi spettacolari sempre più consolidati, proporre un tipo di cinema che in qualche modo non sia allineato con le esigenze estetiche o narrative del sistema vigente può senza dubbio comportare delle difficoltà di espressione; accettato questo dato di fatto, le strade maggiormente sicure da percorre sono due: continuare ad esprimere la propria poetica lavorando ai margini del sistema – ma attenzione, mai completamente fuori – riuscendo a mantenere la propria libertà creativa ed insieme quel minimo di riconoscimento mediatico che assicuri potere decisionale.

Questo è ad esempio il caso di due maestri assoluti come Lynch appunto e David Cronenberg, che nel corso della loro straordinaria carriera hanno saputo trovare un perfetto equilibrio tra la loro “poetica della visione” e le necessità di contatto con il pubblico; pensiamo ad opere come “The Elephant Man” (id., 1980), “Velluto blu” (id., 1986) o l’ultimo “Mulholland Drive” (id., 2001) per quanto riguarda Lynch, oppure a “La mosca” (The Fly, 1986), “Inseparabili” (Dead Ringers, 1988) o “ExistenZ” (id., 1999), di Cronenberg. Opere di incredibile originalità ed impatto visivi, eppure capaci di spiegarsi anche allo spettatore medio.

    Chi invece si ostina a lottare contro la dicotomia arte/industria, non riuscendo purtroppo a trovare un equilibrio nel proprio cinema, è il grande ma ormai irritante Terry Gilliam: possibile che ancora non riesca ad adeguare le sue esigenze personali con le richieste delle produzioni che gli finanziano i lungometraggi. Se ormai il caso del suo Don Chisciotte sembra essere diventato una specie di odissea che forse sta arrivando a compimento, tuttavia  a mio avviso Gilliam non ha ancora dimostrato di saper gestire il suo comunque notevole talento visionario: se infatti capolavori come “Brazil” (id., 1984) e “Paura e delirio a Las Vegas” (Fear and Loathing in Las Vegas, 1998) sono risultati dei fiaschi economici, opere più commerciali come l’ultimo “I fratelli Grimm e l’incantevole strega” (The Brothers Grimm, 2005) è stata piuttosto deludente.