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INTERVISTA A LAURENT CANTET

"A tempo pieno", il film di Leonard Cantet premiato con il Leone dell'anno alla Mostra del Cinema di Venezia, sarà nelle sale italiane dal 18 ottobre.

A tempo pieno

12.04.2007 - Autore: Adele de Gennaro
Dopo aver raccontato il mondo del lavoro in Risorse umane, il regista francese Laurent Cantet torna sullargomento con A tempo pieno, premiato con il Leone dellanno allultima Mostra del cinema di Venezia. Un film che non può lasciare indifferenti, non solo per la magnifica interpretazione di Aurélien Recoing, ma anche e soprattutto per i temi affrontati, dallutopia di un mondo senza lavoro affrontata da una doppia prospettiva allambiguità dei rapporti familiari. Anche questa volta Cantet si ispira ad un reale vicenda di cronaca, il caso Romand, ma si tratta solo di uno spunto iniziale. A confermarlo è lo stesso Cantet, incontrato a Roma alla vigilia delluscita del film nelle sale italiane.   Come definirebbe il personaggio di Vincent? L. C. Vincent è un camaleonte con la spaventosa abilità di condurre una doppia vita. Da questo punto di vista A tempo pieno racconta la storia di un favoloso tentativo di fuga, tuttavia quella di Vincent è una fuga molto ambigua perché in realtà non desidera affatto cambiare la sua vita, vuole solo liberarsi da tutte le costrizioni economiche e sociali. Per questo Vincent opta per una posizione insostenibile, a metà strada fra un riconoscimento sociale, borghese e rassicurante di cui non desidera privarsi ed un mondo più torbido, fatto di ozio, truffa e traffici illeciti.   Secondo lei oggi si sono ridotti i confini delle differenze tra lalienazione del lavoro degli operai e quello dei manager? L. C. Il lavoro, specialmente per i quadri, diventa sempre più astratto. Certo, io lo dico parlando dallesterno, ma credo che oggi lunica cosa che rimane a queste persone sia la facciata. Non a caso Vincent è un consulente aziendale, in queste imprese ci sono delle regole di gruppo che danno una sorta di legittimazione ma poi diventano fini a sè stesse.   Nel suo film non si parla solo di fuga dalla realtà, o meglio di negazione, ma anche di rapporti conflittuali allinterno della famiglia. Gli scontri con Julien, il figlio maggiore, o ancora i lunghi silenzi di Muriel, la moglie incapace di vedere oltre. L. C. In effetti io volevo che il film fosse soprattutto una storia damore, penso che il problema di Vincent non sia abbandonare tutto, ma in particolare prendere coscienza del prezzo che deve pagare per farlo.   I ruoli allinterno della famiglia sembrano quasi ribaltati, qual è la sua visione del rapporto padre-figlio? L. C. Quello che mi interessa è la famiglia come strumento sociale in cui tutti i legami sono amplificati dai rapporti convenzionali. Qui il padre di Vincent rappresenta quasi unossessione sociale, ma è anche vero che tutto quello che Vincent fa è per soddisfare le aspettative del padre.   Fino a che punto il suo film è ispirato al caso Romand? L. C. Si tratta di vicende molto diverse. Lo spunto di partenza del film è la storia di un uomo che vuol sfuggire alla costrizione della realtà e si rifugia in una doppia vita. In questo senso il caso Romand è un paradigma, infatti ho voluto eliminare qualsiasi aspetto patologico da questo personaggio ed ho mantenuto solo dei piccoli elementi di cronaca, ad esempio il finto lavoro in Svizzera. Vincent vuole soprattutto qualcosa che gli dia una personalità più grande.   Vincent viene spesso osservato durante il suo vagare nella autostrade, nelle soste alle stazioni di servizio: perché? L. C. Questo è un altro elemento preso dalle cronache del caso Romand, ma in realtà mi interessava capire che cosa faceva questuomo nellarco di una giornata. Questo non-lavoro, però, non corrisponde ad una inattività di Vincent: occorre molta più energia nel mentire, si deve essere sempre pronti a reagire.   Come è nata la scelta di affidare il ruolo di Jean-Michel a Serge Livrozet? L. C. In Francia Livrozet è più conosciuto dalla generazione che ha vissuto il 68. Figlio di una prostituta, ha iniziato a lavorare come idraulico a 14 anni ma ha capito molto in fretta che questo lavoro sarebbe diventato per lui una schiavitù. Il suo modo di cambiare è stato quello di scassinare le casseforti del Lotto, voleva rubare non ai privati ma allo Stato e anche dopo la prigione ha conservato la sua visione anarchica del mondo. In ogni caso ho sempre affiancato attori veri e non professionisti, credo che questi ultimi arricchiscano sempre la realizzazione di un film.   Quanto potrà identificarsi il pubblico nellambiguità di Vincent? L. C. Non sono né un profeta né un sociologo, ma ho molti amici che oggi, alletà di 40 anni, hanno la sensazione di aver dato molto e di non aver ricevuto nulla. Credo che il rimettersi in discussione sia molto comune di questi tempi. In ogni caso non volevo che Vincent fosse un disoccupato che si vergognava di esserlo ed è questo il lato del film che ha suscitato finora più discussioni: lui non ha difficoltà a trovare un altro lavoro, semplicemente lo rifiuta. In fondo abbiamo cercato soprattutto di descrivere uno spazio mentale, ecco perché in molti casi Vincent è spettatore della sua vita, è come se guardasse tutto dallesterno.  
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