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Elephant

Con "Elephant" Van Sant si è definitivamente lasciato Hollywood alle spalle, ed è tornato a lavorare ad un progetto più piccolo e flessibile che ha stregato Cannes, incassando la Palma d'oro ed il Premio per la miglior regia.

Elephant

12.04.2007 - Autore: Michela Saputi
Di nuovo autore firma sceneggiatura, regia e montaggio- Gus Van Sant prosegue la sua ricerca sui confini incerti e sfumati delle età di passaggio, e sui mostri generati dall'inconscio della società dello spettacolo.   Elephant è una riflessione sulla violenza nelle scuole americane, teatro negli ultimi anni di un numero crescente di stragi, compiute dagli studenti stessi. Il titolo è tratto da una pellicola del 1989, esemplare per la rappresentazione, dura e realistica, della violenza nelle scuole dell'Irlanda del Nord. Il regista, Alan Clarke, lo riferiva al motto "un problema è ignorabile quanto un elefante in un salotto". Van Sant lo associa anche ad un racconto degli scritti buddisti, che utilizza proprio la metafora dell'elefante per descrivere l'incapacità di comprendere un problema nella sua globalità, poiché più spesso ciascuno si sofferma sull'interpretazione limitata a quella parte che riesce a cogliere. Non è possibile infatti individuare nel suo film facili chiavi di lettura: occorre accantonare i pregiudizi e semplicemente fermarsi a guardare la realtà. E' una giornata qualunque in un liceo americano. Conosciamo dei ragazzi, li seguiamo, li ascoltiamo, e capiamo come ognuno affronti diversamente lo stesso ambiente. Una normale giornata di scuola, ma non per tutti.   L'intento di Van Sant è di tratteggiare un quadro il più possibile realistico. Il primo passo è la scelta di girare in una vera scuola di Portland, nell'Oregon, dove il regista vive. I protagonisti, veri studenti, sono stati incoraggiati a creare i loro ruoli prendendo spunto dalle proprie esperienze personali. Come già in "Gerry", il copione è libero, molto è affidato all'improvvisazione. Ad esempio, la scelta di Beethoven per la musica è nata casualmente, ascoltando un ragazzo improvvisare al piano durante le riprese. La scena è stata poi inserita, e la musica estesa ad altre parti del film. La componente sonora è invece realizzata attraverso la "musique concrete", musica elettronica che privilegia i suoni naturali piuttosto che gli strumenti convenzionali. Perfetta l'opera di Harry Savides, direttore della fotografia già in "Scoprendo Forrester" e "Gerry", che utilizza la luce naturale per far emergere la bellezza intrinseca delle cose, valorizzando gli effetti chiaroscurali autentici, che quasi ci fanno sentire l'odore delle aule, dei corridoi, in cui i personaggi si aggirano. A pazienti campi lunghi, si alternano incalzanti riprese "alle spalle" dei ragazzi, in un vero e proprio pedinamento. Il rovesciamento della tradizionale prospettiva, rubata al teatro ed alla pittura, impedisce la costruzione di un punto di vista che possa fornire un appiglio allo spettatore, catapultato dentro la storia. E' una visione che ricorda piuttosto i videogame, come quelli con cui Alex ed Eric ingannano il tempo prima di andare a scuola.   Elephant è un film anomalo, distante dagli eccessi di "Drugstore cowboy" e "Belli e dannati", eppure ancora più audace: non c'è una direzione, né un senso rassicurante. Nel colpo finale convergono i ritratti frammentati, tracce di un non detto che richiede responsabilità ben più forti del proteggersi dietro una spiegazione plausibile.  
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